1.2 CONCETTO DI STATO DI BENESSERE

 

Lo stato di benessere per noi coincide con la piena normalità e, come vedremo in seguito, nell'adulto, col raggiungimento della piena maturità.

Chiaramente, la nozione di benessere qui utilizzata non va riferita ad un'utopica condizione di totale assenza di conflitti e disagi interiori, ma alla capacità di reagire con flessibilità e congruenza a situazioni contingentemente limitanti.

Ne deriva che lo stato di benessere non può essere inteso come una condizione statica (nonostante l'identità del radicale: stato-statico) ma un equilibrio dinamico; come il piacere è originato dalla soddisfazione di un bisogno, così il benessere può considerarsi come la costante messa in atto di comportamenti adattivi adeguati per superare situazioni di disagio.

A questo punto si impone una precisazione sul termine e sul concetto di normale. Vedremo che cosa correntemente si intende parlando di normalità e passeremo in rassegna le principali accezioni in cui è usato questo termine, soffermandoci su quella che reputiamo più adeguata nella nostra prospettiva.

 

12.1 DEFINIZIONI CORRENTI DEL CONCETTO DI NORMALITA'.

Nella letteratura psicologica il termine "normale" è usato in varie accezioni che riflettono spesso differenti orientamenti sui risvolti ideologici che stanno alla base.

Possiamo dire che si tratta di un termine analogico, in cui l'elemento comune ai vari significati è la conformità ad una "norma" o criterio di giudizio. Quanto a questi criteri, essi sono riconducibili ad alcuni gruppi dei quali qui elenchiamo i principali.

121.1. La norma statistica.

La Norma statistica è il confronto con la frequenza media con cui un determinato comportamento si suole presentare. E' un parametro strettamente obiettivo, definisce però l'esistenza di differenze puramente quantitative.

Statisticamente è anormale tutto ciò che si distacca dalla media oltre un limite aprioristicamente fissato; l'anormalità si distingue però dall'originalità in base ad altri criteri estrinseci a quello statistico.

Ciò che rientra nei limiti fissati è normale, portando il criterio alle estreme conseguenze si dovrebbero considerare normali anche delle manifestazioni chiaramente devianti se in un certo contesto sociale si riscontrassero con un'alta frequenza. Anche Aristotele, parlando di norma ideale, nell'Etica Nicomachea, fa appello ad un criterio che potrebbe dirsi vagamente statistico, quando dice che essa è nel giusto mezzo, tra l'eccesso e il difetto.

A parte la critica fondata di conformismo che si potrebbe muovere a questo tipo di norma, i pochi elementi teorici ai quali fa appello (come nella decisione dei limiti da attribuire alla normalità e nella distinzione tra originale e deviante) debbono essere ricondotti ad altri criteri che la statistica non è in grado di fornire.

121.2. L'assenza di sintomi.

Altri criteri di normalità proposti sono su basi negative: l'assenza di conflitti o di sintomi.

Tali criteri se accettati con entusiasmo in seguito alle prime scoperte della psicanalisi, si sono rivelati aleatori, specie con la constatazione che conflitti ritenuti patogeni si riscontrano in individui normali. Ciò che rende il conflitto patogeno è l'intensità, il momento in cui si manifesta, la concomitanza con altri fattori, ma soprattutto la mancata integrazione nel contesto globale della personalità.

Un conflitto adeguatamente vissuto potrebbe anche costituire la spinta verso un maggiore benessere non meno che, a livello organico, un vaccino che stimoli gli anticorpi o uno sforzo fisico che attivi la circolazione del sangue.

Si può considerare adeguatamente vissuto un conflitto che si pone dialetticamente nel contesto dell'esistenza dell'individuo come un problema intorno al quale egli lavora per il superamento o per la ricerca di una soluzione, ma dal quale non si lascia sommergere travolto in una tensione o sofferenza costante. In altri termini, un conflitto si può considerare normale nella misura in cui viene integrato nel contesto esistenziale come forza costruttiva nella ricerca di un equilibrio ad un livello superiore.

Un'analoga considerazione può essere fatta per quanto riguarda i sintomi.

Un sintomo schizoide, ossessivo, isterico, se bene integrato nell'ambito della personalità, può efficacemente influire nella realizzazione del grande artista, del ragioniere perfetto, dell'attrice di successo, senza nulla togliere ai loro rispettivi stati di benessere.

Oltre queste considerazioni, che evidenziano l'aleatorietà del criterio, a noi sembra che una tale concezione non definisca adeguatamente l'individuo normale e che parta da una concezione pessimistica dell'uomo; sono anche da considerare le perplessità nel volere applicare in questo campo il principio del terzo escluso.

121.3.Criterio della caratterizzazione.

I tentativi - che sembrano più validi - per stabilire un criterio di normalità si basano sulla caratterizzazione ottenuta per un processo di astrazione, del tipo che debba essere considerato normale.

Rientra in questa categoria la descrizione che fa Freud dell'individuo normale come capace di amare e lavorare. Analizzando questi ed altri tentativi del genere possiamo però notare come siano riconducibili al criterio dell'integrazione di cui parleremo in seguito: in questo caso, ad esempio, amare come integrazione affettiva, lavorare come integrazione nella collettività dando ad essa il meglio delle proprie energie; in entrambi gli aspetti ricevere dagli altri gratificazioni a tutti i livelli.

121.4.La norma ideale.

La norma ideale definisce l'adeguamento con un criterio ideale, al quale, anche se non è possibile giungere, è considerato giusto tendere; essa ha, secondo K. Lewin, un carattere di invito al libero comportamento individuale.

Ogni sistema sociale si serve di norme ideali ed esige che i suoi aderenti vi si adeguino.

La norma morale, per certi versi, si avvicina alla norma ideale; potrebbe però costituire un criterio a sé stante perchè fa leva su una categoria di valori (comuni ad un determinato gruppo, religioso o, più in generale, sociale) con una qualche tendenza ad isolarli da un contesto più generale.

 

121.5. La norma funzionale.

La norma funzionale prescinde dalle norme precedentemente considerate e definisce normale lo stato che permette all'individuo di raggiungere, nel modo più consono alle sue esigenze e col minore dispendio di energia, gli obiettivi che si propone.

Nulla però ci dice sulla bontà di questi obiettivi, sia riferita ad un più autentico benessere dell'indivviduo stesso, sia in rapporto ad un criterio di desiderabilità sociale.

121.6. La norma soggettiva.

La norma soggettiva è quella che ognuno si costruisce in base alle proprie esperienze di vita, fissando un punto neutro di riferimento per ogni settore della realtà circa la convenienza o meno di determinati comportamenti: in genere in questa zona giudicata soggettivamente neutra fra i due poli opposti di valori e di controvalori, rientrano tutti quei comportamenti giudicati piccole debolezze o bizzarrie accettabili, purché mantenute entro quei limiti.

La norma soggettiva potrebbe non coincidere, in tutto o in parte, con criteri socialmente accettabili; per citare i casi estremi, certi criminali considerano giustificati alcuni loro comportamenti antisociali mentre manifestano un ipermoralismo in altri campi, come la fedeltà alla parola data o la lealtà verso gli amici.

 

12.2 LA NOSTRA DEFINIZIONE DI NORMALITA'.

Nei criteri di giudizio sulla normalità di un individuo, che abbiamo passato in rassegna, possiamo riscontrare degli aspetti interessanti, ma a nostro avviso è possibile approfondire ulteriormente l'indagine per trovare qualcosa che sottenda a tutti, che sia basato su elementi obiettivi e che faccia luce sulla natura della normalità.

Per l'esatta comprensione del nostro punto di vista dobbiamo rifarci a dei concetti di ordine più generale.

L'essere vivente, fin dai primissimi gradi della sua organizzazione, è in costante interazione con l'ambiente al punto che non è possibile ipotizzare la sua esistenza a prescindere dall'ambiente medesimo; la natura stessa della vita, attraverso le sue funzioni metaboliche, postula un costante scambio di energia e di materia con l'ambiente che circonda l'organismo. Non a torto numerosi studi di questi ultimi decenni portano a concepire organismo ed ambiente come un unico sistema più ampio, di cui le singole parti costituiscono dei sottosistemi.

Progredendo nella scala biologica, con lo sviluppo delle sensazioni e delle capacità motorie l'interazione diventa sempre più intima e complessa, fino a toccare il culmine nell'essere umano, in cui pensiero e cultura si integrano in una nuova sintesi che affonda le sue radici nella realtà fisica e nello stesso tempo la trascende.

E' proprio integrazione l termine che a nostro avviso meglio traduce il concetto di questa sintesi originale che, pur non annullandoli, ingloba vari sistemi in uno di ordine superiore con caratteristiche peculiarmente proprie; il nuovo sistema può a sua volta essere inglobato in altri, come in cerchi che si estendono sempre più e si intersecano con altri, per comprendere una parte sempre maggiore della realtà.

Come la natura tende ad organizzarsi in strutture sempre più complesse ed armoniose, così l'uomo tende alla piena realizzazione di sé trascendendo i limiti biologici per integrarsi in realtà sempre più vaste, in cui trova la sua ragione di esistere.

 

Un'attenta lettura del processo evolutivo umano ci mostra infatti come questa direttrice sia ricca di prospettive nella chiarificazione del concetto di normalità.

 

122.1. Ancoraggio al processo evolutivo.

Nella nostra concezione riteniamo di poter ancorare il concetto di normalità al processo evolutivo.

Già in un nostro precedente articolo (Minio 1970) che qui riepiloghiamo nelle linee essenziali, si poteva evidenziare l'esistenza di un filo conduttore che attraverso successivi gradi di integrazione, scandisce le varie tappe che portano l'individuo alla piena maturità.

 

Lo sviluppo psicologico di un individuo può essere rappresentato da una traiettoria che ha il suo punto di origine in un assoluto egocentrismo e tende alla piena capacità di rapporto con la realtà esterna con la quale interagisce a vari livelli, fino a costituire con essa un'unità esistenziale. Il termine "tende" sta ad indicare che questa piena capacità costituisce un ideale il cui raggiungimento non è automaticamente legato all'età cronologica né può identificarsi con aspetti parziali, come la maturazione biologica od intellettiva.

In questo processo hanno particolare rilievo due periodi, infanzia e adolescenza. In ognuno di questi periodi possiamo evidenziare tre modi di vivere il rapporto e di integrarsi con la realtà esterna, che si susseguono in entrambi secondo lo stesso schema. I tre modi possono essere considerati come processi ontogenetici legati forse a fattori biologici nell'infanzia, così come viene evidenziato dalla psicoanalisi, per diventare, ripercorrendo le stesse fasi, prettamente psicosociali nell'adolescenza e nella maturità.

Seguendo da vicino E. Erikson preferiamo considerare le fasi dello sviluppo infantile che la psicoanalisi denomina orale, anale e fallica, come nei modi di essere nell'interazione con la realtà: egocentrismo, strumentalizzazione, competitività. Ciò, non perchè giudichiamo questo punto di vista più significativo di altri, ma perchè esso ci permette una interpretazione più coerente del periodo infantile, di valorizzare maggiormente la dinamica dell' "Io" e di stabilire meglio l'analogia col periodo giovanile.

 

* Nel neonato il termine di ogni interesse è la propria soggettività; possiamo quindi rappresentarci lo psichismo del bambino come caratterizzato da un egocentrismo assoluto: il bambino a questa età non è in grado di occuparsi se non di se stesso, della propria conservazione e di tutto ciò che può procurargli un piacere immediato.

** Col secondo anno di vita, la maggiore efficienza delle funzioni sensoriali e motorie e le acquisizioni raggiunte, mettono il bambino in condizione di procurarsi delle sensazioni gradevoli. Nella tendenza a recepire ed incorporare, l'interesse si sposta dalle sensazioni soggettive agli oggetti che possono provocare tali sensazioni ed al controllo di essi.

Anche la fonte di piacere si sposta ed è ora costituita, più che dal ricevere, dal controllo attivo della realtà attraverso il dominio della propria muscolatura. Le conoscenze più approfondite degli oggetti vengono strumentalizzate dal bambino ai fini di un maggiore controllo su di essi.

Considerando gli oggetti, il bambino non fa una sostanziale differenza fra essi e le persone: il rapporto con le persone è basato sul bisogno di superare le proprie limitazioni strumentalizzando gli adulti in tal senso.

Se non riesce in questo intento si trincea in atteggiamenti di opposizione ostinata. Se volessimo trovare un elemento-chiave che ci faccia capire il carattere fondamentale di questa fase, dovremmo probabilmente pensare all'esigenza di conoscere la realtà al fine di controllarla e di strumentalizzarla per la soddisfazione delle proprie esigenze.

*** Tra il terzo e il quarto anno di vita, il progredire del processo di maturazione porta il bambino alla percezione degli altri come persone, oggetto di interesse, e non più come strumenti per il raggiungimento di altri oggetti: sorge quindi il problema di un contatto con loro su una base di comunicazione personale; i primi tentativi sono però ancora accompagnati da forti cariche emotive. Il bambino, comincia a percepire gli altri come esseri simili a sé, prova l'esigenza di entrare in rapporto con loro; d'altro canto, l'insicurezza che caratterizza i primi tentativi in tal senso accentua il bisogno della propria affermazione e fa assumere ai rapporti sociali il carattere di competitività.

 

Il superamento della terza fase dell'età infantile coincide, orientativamente, con l'età scolare. Caratteristica di questo periodo è il consolidamento del livello di maturazione raggiunto: il legame con i genitori va perdendo la forte carica emotiva e diventa più sereno; il lavoro scolastico, o l'eventuale equivalente, canalizza le energie in una direzione diversa; il rapporto con i coetanei è maggiormente impostato sulla collaborazione; lo sviluppo della razionalità assicura una maggiore coerenza e continuità alla vita psichica.

Il processo di maturazione continua in questo periodo con graduale progressione e senza bruschi cambiamenti o involuzioni. La fine di questo periodo ci fa trovare il fanciullo con un certo grado di sviluppo delle capacità intellettive, tali da permettergli di assumere atteggiamenti critici di fronte a se stesso ed agli altri e di avere una certa visione obiettiva della realtà.

 

Con la pubertà l'evoluzione psicologica dell'individuo subisce un brusco cambiamento. Una serie di nuovi elementi mettono in crisi la relativa stabilità che aveva caratterizzato il periodo precedente. Alcune manifestazioni fanno anche pensare ad una involuzione: tale, ad esempio, la maggiore incidenza di aspetti emotivi a discapito dell'oggettività di giudizio che si poteva osservare fino a poco tempo prima.

L'esistenza di un filo conduttore in questo periodo dell'evoluzione è meno evidente.

I motivi sono molteplici:

1)La struttura organica dell'individuo tende verso un assestamento definitivo e si riscontra una sempre minore dipendenza della vita psichica da fattori biologici.

2)Esiste una razionalità che nella prima fase non era presente e che ora interferisce con le manifestazioni spontanee dell'adolescente.

3)Lo psichismo del neonato si può considerare embrionale mancando esperienze precedenti particolarmente incisive; la vita psichica dell'adolescente ha tutto un passato che incide pesantemente nell'evoluzione attuale.

4)L'influenza dei fattori educativi è notevolmente maggiore nell'adolescente: le manifestazioni sono più facilmente riducibili a schemi tipici della vita adulta e l'educazione agisce in tal senso.

Questi ed altri fattori, pur influendo per lo più positivamente sul processo di maturazione psichica, impediscono di scoprire la dinamica dell'evoluzione.

Tuttavia, a bene osservare, le tre forme di atteggiamenti descritti nell'infanzia, egocentrismo, strumentalizzazione e competitività, si possono riscontrare in tre successivi momenti dell'età giovanile, sebbene non con la stessa evidenza, in forma diversa ed a volte con delle sovrapposizioni.

 

* Con l'avvicinarsi della pubertà il ragazzo perde la relativa tranquillità che aveva caratterizzato gli anni precedenti.

L'attenzione comincia a polarizzarsi su di sé. L'andamento non graduale dello sviluppo fisico provoca delle disarmonie che sono vissuti con toni a volte drammatici; anche dei lievi difetti fisici determinano stati di preoccupazione e motivi di vergogna del tutto sproporzionati.

Il ragazzo comincia a rendersi conto della propria vita e della propria individualità; ne consegue una cura gelosa della propria autonomia e di tutto quello che riguarda la propria persona.

L'intensa carica emotiva che accompagna tutto questo interferisce ed intralcia l'obiettività di conoscenza e di giudizio precedentemente raggiunta: l'elemento soggettivo si frappone a quello oggettivo, al punto da immergere il preadolescente in un mondo irreale.

Nel comportamento esterno egli appare inquieto, instabile, chiuso, ostinato; l'umore è facilmente variabile ed a brevi momenti di entusiasmo succedono periodi più o meno lunghi di depressione.

In campo sessuale la prima manifestazione suole essere la masturbazione, nella quale possiamo ravvisare un bisogno di costituire il proprio corpo come oggetto delle tendenze sessuali.

Elemento comune nelle manifestazioni osservate è la tendenza al ripiegamento su se stesso, nella quale possiamo ravvisare un ritorno ad un atteggiamento di egocentrismo.

** Col superamento della crisi puberale l'adolescente si avvia ad un periodo più tranquillo.

Caratteristica della nuova fase è l'aspirazione a trovare qualcuno che lo aiuti, cui appoggiarsi.

Due elementi caratterizzano questa aspirazione:

1)l'aiuto che egli cerca è di essere amato e di essere lasciato vivere secondo le nuove esigenze della sua personalità;

2)l'interesse per la persona che lo aiuta è limitato al momento e alle circostanze dell'aiuto; quando non ha più bisogno di aiuto l'adolescente dimentica con facilità quanto ha ricevuto e non mostra alcun segno di riconoscenza.

E' questo l'atteggiamento tipico dell'adolescente: l'interesse è rivolto agli altri nella misura in cui questi possono essere utili per raggiungere quanto egli non può ottenere da solo.

Anche in campo sessuale, il progressivo superamento della masturbazione, porta specie nel maschio, cui la cultura tradizionale lo consente, alla ricerca di un partner, spesso mercenario od occasionale, da utilizzare come strumento per soddisfare i propri impulsi.

Questa considerazione ed altre già precedentemente esposte e che per brevità omettiamo, ci fanno ravvisare i caratteri dell'atteggiamento di strumentalizzazione.

***L'inizio della giovinezza è caratterizzato da un maggiore bisogno di definire la propria fisionomia e porsi all'attenzione degli altri.

La tendenza a modificare il nome, il desiderio di abiti eccentrici, la pettinatura estrosa esprimono l'esigenza di affermazione tra i compagni.

Anche la passione con la quale il giovane si impegna nello sport o in hobbies è l'espressione del bisogno di affermazione di sé attraverso il superamento degli altri.

Il giovane è arrivato ad una presa di coscienza di sé e degli altri, in quanto esseri con i quali sente il bisogno di stabilire un rapporto personale. Due elementi però ostacolano questo rapporto: il non completo superamento dell'atteggiamento egocentrico e l'insicurezza di sé e del suo ruolo. Gli riesce difficile abbandonarsi in una donazione completa ed è costantemente preoccupato di non raggiungere, o di perdere, la propria identità personale.

Anche gli amoreggiamenti che in questa fase si intrecciano hanno spesso un sapore di "schermaglie" in cui facilmente traspare più o meno cosciente il bisogno di dominare e la paura di essere dominato dall'altro.

Non è casuale l'uso del termine "conquista" invalso nel linguaggio corrente e tanto in voga tra i giovani.

Queste considerazioni denotano come spesso il giovane assuma un atteggiamento competitivo; pur sentendo il bisogno di inserirsi e integrarsi nel gruppo in cui vive, è costantemente preoccupato del proprio ruolo in seno ad esso e, nella paura di essere sopraffatto e dominato, cerca di difendere la sua autonomia e di polarizzare su di sé l'attenzione.

In questo contesto si pone impellente il problema della propria vita e sono frequenti i progetti per l'avvenire, nei quali egli occupa sempre un posto di primo ordine.

 

La maturità può essere quindi concepita come l'ideale a cui tende l'individuo che ha percorso normalmente gli stadi precedenti. Parliamo di ideale perchè l'individuo pienamente maturo, e quindi perfettamente normale, nella realtà non esiste. Possiamo intuire questo stato estrapolando, a partire da quanto osservato nel processo di maturazione: una tendenza a superare l'egocentrismo per integrarsi sempre più nella realtà esterna.

 

Parallelamente a queste fasi, obiettivabili perchè si riflettono in comportamenti esterni, si svolge il non meno importante processo di armonizzazione delle varie istanze in seno alla personalità.

Riprendendo un immagine di Jung, il processo evolutivo è paragonabile all'emergere di un continente sommerso: inizialmente sono dei picchi isolati che affiorano; con l'abbassarsi delle acque i picchi si vanno unendo in catene montuose, infine con lo scomparire delle acque tutto il continente assume un carattere di unità.

Così, a livello psicologico, inizialmente si vanno manifestando le varie esigenze incoordinate e spesso in contrasto tra di loro finché gradualmente con l'avvicinarsi alla maturità, le istanze si integrano fino a formare una struttura coerente ed armoniosa.

122.2 La maturità come integrazione.

Da quanto detto appare abbastanza chiaramente come il filo conduttore di tutto questo processo è un susseguirsi di stadi di integrazione sempre più complessi, sia a livello intrapsichico, sia a livello relazionale ed esistenziale.

Possiamo quindi concepire lo stadio della piena maturità come costituito da una integrazione armoniosa:

- di tutte le tendenze nell'ambito della personalità;

-.della propria individualità nella grande famiglia umana;

- della propria esistenza in una prospettiva teologica.

La mancanza di integrazione ad uno di questi tre livelli, costituisce una delle principali fonti di disagio (1) e si manifesta in una conflittualità che limita lo stato di benessere.

- Conflitti intrapsichici, che si riflettono principalmente nella formazione di un incoerente ideale dell'Io.

- Conflitti col mondo esterno che sono alla base del disadattamento sociale.

- Conflitti esistenziali legati alla concezione del significato della vita.

Queste riflessioni ci autorizzano a considerare la maturità, caratterizzata dalla piena integrazione, come criterio di normalità di un individuo e di realizzazione del suo stato di benessere.

Il concetto di normalità basato sul criterio descritto, a nostro avviso, supera i limiti delle definizioni precedentemente passate in rassegna:

 

(1) In una ricerca in corso presso il nostro Istituto, correlando e fattorizzando 138 tratti di personalità (normali e patologici) ricavati attraverso questionari è emerso un primo fattore comune che satura in varia misura i tratti che rivelano una buona integrazione; il secondo fattore emerso, satura in varia misura i tratti patologici, con particolare riferimento alla carenza di integrazione. La ricerca, sebbene ancora da ultimare, confermerebbe l'ipotesi formulata nel presente lavoro.

1)E' ancorato su dati reali, quali il processo evolutivo e ricerche sperimentali e non su concetti aprioristici o puramente teorici.

2)Definisce la normalità in se stessa, non per esclusione del suo opposto. C'è da aggiungere che anche le definizioni della normalità come assenza di conflitti o di sintomi in definitiva, rimandano al criterio dell'integrazione per stabilire la patologicità degli stessi.

3)Contrassegna adeguatamente ciò che il senso comune indica come normale; viceversa la sua assenza, in gradi ed in forme diverse, ci da i vari quadri delle anomalie, come vedremo in seguito.

4)E' abbastanza sganciata da ideologie particolari o da teorie di una singola corrente; a parte l'uso di una terminologia che potrebbe non essere condivisa da una qualche scuola, pensiamo che il concetto, tradotto nei differenti linguaggi,possa essere da tutti accettato.

 

In conclusione, la sequenza proposta:

 

stato di benessere = normalità = matu­rità = integrazione

 

Ci sembra legittimamente consequenziale e generalizzabile.

122.3. Definizione del concetto di integrazione.

E' necessario ora chiarire ulteriormente il concetto di integrazione e precisare cosa esattamente intendiamo utilizzando questo termine.

 

In linea generale può essere definito come un processo di unificazione di più parti in un tutto di livello superiore con funzioni nuove, nel quale le parti stesse, pur rimanendo in qualche modo distinte, perdono in varia misura la loro identità. E' un processo in cui si sottolinea come componente essenziale e caratterizzante il concetto di originalità e non di giustapposizione di elementi.

 

Il concetto di integrazione copre una vasta area di significati, e trova applicazione anche in campi diversi da quello biologico e da quello psicologico; c'è da dire inoltre che, in quest'ultimo caso, il termine di sintesi è frequentemente utilizzato in alternativa con il termine di integrazione.

 

Il concetto di integrazione è in qualche modo diverso da quello di adattamento, anch'esso ampiamente usato nel linguaggio biologico e psicologico, sebbene in molti casi queste differenze tendano a sfumare.

In campo biologico si parla di adattamento quando le funzioni effettive, determinate congiuntamente dal meccanismo totale dell'organismo e dal suo ambiente, presentano un carattere favorevole alla sopravvivenza dell'organismo stesso.

Il concetto di adattamento, in campo psicologico, ha dei contorni piuttosto indefiniti e da alcuni studiosi, quando sono implicati i processi psichici superiori, mediante i quali l'uomo tratta con le esigenze poste dal mondo esterno, viene sostituito con quello di aggiustamento, derivato dall'inglese adjustement.

Piaget descrive nel bambino due principali meccanismi di adattamento: l'assimilazione e l'accomodamento. Nell'assimilazione il bambino parte dalle sue capacità innate e cerca intorno a sé le occasioni per esercitarle. Nell'accomodamento egli deve accettare ciò che è imposto dal mondo esterno.

Appare chiaro come questi concetti, sebbene contraddistinti da termini diversi, seguano da vicino il nostro concetto di integrazione.

Si parla di un adattamento attivo e passivo: si ha adattamento passivo nelle forme di assuefazione, e di conformismo sociale; nell'adattamento attivo, l'individuo rivede i suoi schemi di comportamento e le sue categorie cognitive alla luce dei nuovi elementi per interagire più efficacemente con la situazione nuova, anche modificandola, se ciò è necessario e possibile.

Il concetto di integrazione, come da noi inteso, si avvicina a quello di adattamento attivo, nella misura in cui sottolinea la ristrutturazione stabile di tutto l'individuo in funzione della nuova situazione in cui viene a trovarsi. L'integrazione inoltre include ed evidenzia l'aspetto intrapsichico, l'esigenza, cioè, di armonizzare tutte le istanze che provengono dall'interno dell'individuo, tenendo conto dei dati che provengono dalla realtà esterna. Si tratta di una attività sostanzialmente creativa e non va confusa col conformismo sociale, in cui l'individuo accetta passivamente le influenze esterne e vi si adegua. L'equilibrio che in tal modo ne deriva, è un equilibrio dinamico che si modifica ad ogni nuovo elemento sopraggiunto, pur mantenendo come fondo la coerenza e l'armonia, non diversamente da quanto accade in tutti gli organismi viventi ed in perfetto stato di salute.

A sottolineare la dinamicità di questo equilibrio c'è da aggiungere che esso è messo costantemente in discussione su due fronti: da un lato dai bisogni individuali, generalmente qualificati come soggettivi, dall'altro dalle esigenze ambientali solitamente definite come obiettive perchè comuni a più individui, anche se probabilmente non allo stesso modo.

Spesso avviene che, ancor prima che l'equilibrio sia raggiunto, le istanze poste da uno o da entrambi i fronti siano già cambiate ed il soggetto continui nella sua ricerca; a voler essere consequensiali, non potrebbe nemmeno chiamarsi equilibrio poiché è costituito dal costante processo di integrazione che si svolge tra gli opposti poli.