2. I protagonisti

 

A. I docenti.

(Con la collaborazione di Marinella Rubera.)

Il docente considerato nella complessità del suo ruolo di animatore, tecnico, professionista, programmatore, comunicatore, facilitatore di apprendimento, rappresenta la figura fondamentale nel collegamento tra le genera­zioni passate e quella presente, che si proietta nel futuro.

Il suo compito, in interazione con la famiglia e il contesto sociale, è di affidare alla nuova generazione il patrimonio cultu­rale che l’umanità ha accumulato nel corso dei millenni.

Il compito, apparentemente lineare, presenta una problematicità com­plessa nella quale non sono estranei motivi di ordine arazionale:

Cultura della verità e dell’essere

Nella tradizione filosofica europea, è stato costantemente dominante il bisogno della ricerca della verità assoluta da scoprire, pur con la coscienza della difficoltà e della problema­ticità che tutto questo comporta.

Logica conseguenza sul piano etico, la cultura di valori, sedimentazione delle conquiste più autentiche alle quali l’umanità va giungendo.

Come di riflesso a livello strettamente individuale, la spinta al miglioramento di se stessi, nella costante tensione verso la realizzazione di questi valori.

Si considera maturo un individuo che tende, come in una curva asintotica, a questi ideali.

Trapiantata in America, attraverso i coloni, la cultura euro­pea dovette rinunziare a molte speculazione filosofiche per ce­dere il passo alle esigenze più concrete di affermazione nel nuovo mondo, dove si andava per far fortuna.

Le nuove esigenze di ordine pratico furono teorizzate e nobilitate da Ch. S. Peirce col pragmatismo. Malgrado le resi­stenze del promotore, che giunse perfino a cambiare nome alla sua teoria, coniandone uno tanto brutto da difenderlo dai ladri di bambini (pragmaticismo), lo pseudoavallo di una teoria filosofica legittimò l’utilitarismo dominante nell’America di fine ‘800; il successo del pragmatismo fu ancora maggiore col vi­raggio verso il campo psicologico ed etico ad opera di W. Ja­mes.

Importato in Italia da G. Vailati (che per la sua mentalità matematica avrebbe preferito il rigore metodologico di Peirce), trovò terreno fertile nelle filosofie della vita a sfondo antropo­centrico che si andavano delineando nel vecchio continente.

Alla cultura della verità, va così subentrando la cultura dell’utile, che diviene utile immediato nel modo di pensare adolescenziale.

Come logico corollario, alla cultura dei valori e dell’essere che si adegua ai valori stessi, tende a subentrare la cultura dell’avere e del consumare, più consona ad un apparato psichico ancora immaturo, quale quello dell’adolescente, e non solo.

Questo tipo di cultura tende a pervadere tutti i livelli.

Quanti docenti, non fra i nostri lettori, naturalmente, cercano nel lavoro quanti più vantaggi sia possibile avere, dalla ricerca di classi meno numerose e con alunni più bravi, alle interminabili querelles sull’organizzazione e le retribuzioni?

Vero anche, se non proprio l’alibi, almeno l’attenuante: in mancanza di altre soddisfazioni, ci appigliamo a queste...

 

1. Da un canto l’insegnante, che ha faticosamente assimilato un aspetto, sia pure limitato, del sapere, vi resta ancorato come ad una parte di sé che vorrebbe valorizzata; sul versante opposto l’alunno con una visione ancora parziale della vita è sensibile solo a quello che sul momento gli interessa.

Questa dialettica si aggancia e riecheggia l’altra più vasta delle due ideologie che dividono il mondo occidentale:

  • La cultura della verità e dell’essere.

  • La cultura dell’utilità e dell’avere.

2. Ogni insegnante è delegato dalla società a trasmettere una parte del sapere nell’interesse della collettività nella prospettiva di conseguire determinati obbiettivi formativi.

 

Se in linea di principio tutti potremmo essere d’accordo, nella pratica sorgono delle perplessità per motivi di ordine opposto:

  • La società trasmette le direttive attraverso gli organi democraticamente costituiti. Chi garantisce, però, che questi organi interpretino le esigenze della società? E di quale società? La passata o quella che sta nascendo e che sarà la società di domani?

In che misura questi organi prendono in considerazione le esigenze e le situazioni concrete che le singole scuole presentano?

  • qual è il grado di autonomia di cui il singolo insegnante gode nella trasmissione del sapere? La società può dare carta bianca anche ad un eventuale modo di pensare aberrante del sin­golo insegnante o deve porre dei limiti e quali limiti? Anche se la libertà di insegnamento è uno degli obbiettivi su cui si dibatte, è chiaro che essa va gestita nel pieno ed esclusivo interesse della formazione culturale ed umana dell’alunno.

Queste riflessioni ci spingono a rivolgere l’attenzione agli insegnanti per un triplice ordine di motivi:

1. La finalità ultima della scuola è l’educazione dei giovani, ma la scuola stessa si inserisce nel contesto più vasto della società, il cui obiettivo è il benessere dei singoli membri e gli insegnanti non sembra che ne deb­bano essere esclusi. Tale tensione verso il benessere individuale e del gruppo si realizza attraverso un’azione educativa e didattica originale con cui l’insegnante possa sentirsi costruttore di cultura e non “anello di una catena di montaggio”. Egli deve essere consapevole che il suo intervento sulla “persona in crescita” non è l’unico, ma si inserisce in un sistema complesso che oggi abbraccia sempre più agenzie educative. Non a caso l’extrascuola è considerata scuola parallela dalla quale non si può prescindere ma con la quale bisogna interagire.

2. Anche se ci volessimo mettere in un’ottica puramente utilitaristica, un operatore sereno e a suo agio nel contesto lavorativo ha un rendimento maggiore nel lavoro. Da più parti si fa appello alla necessità di instaurare a scuola un clima relazionale positivo. L’istanza della cura della relazionalità viene indicata come fattore educativo non ultimo nel complesso processo di insegnamento-apprendimento, considerando che il secondo non è strettamente dipendente dal primo se non si considerano tutte le componenti che possono intervenire nei due momenti trattandosi di rapporto interpersonale e come tale unico ed irripetibile.

3. Postremum sed non ultimum (infine, ma non come ultimo motivo), il lavoro di sensibilizzazione alle proprie problematiche, non semplicemente subite ma analizzate e capite, rende l’insegnante in grado di percepire e compren­dere i vissuti, i problemi e le difficoltà degli alunni, in modo da poter svolgere più adeguatamente la sua funzione di educatore.

è nel rapporto dei singoli insegnanti all’interno dei gruppi docenti (consigli di classe, collegi docenti, commissioni, dipartimenti) che avvengono scambi di idee, anche se talvolta conflittuali ma sempre costruttivi, che contribuiscono a far maturare nell’insegnante la consapevolezza dei suoi vissuti, a fargli superare l’individualismo, la sindrome di primo della classe o al contrario la frustrazione di chi si sente impotente.

Gli insegnanti del team-docente pur mantenendo la diversità nel loro operato, devono ispirarsi ad un unico criterio di base, devono imparare ad agire collegialmente per rendere l’azione educativa globale e produttiva e non costituita da frammenti di cultura messi insieme. Di conseguenza è essenziale, durante gli incontri programmati, socializzare le proprie esperienze, discutere, confrontarsi per rendere partecipi dei vari progetti didattici i componenti del gruppo, per conoscere, approfondire e risolvere insieme le problematiche emergenti relative all’andamento scolastico o agli alunni, per scambiarsi idee circa i metodi di lavoro o semplicemente per aiutarsi a vicenda nei momenti di incertezza operativa.

Solo la collaborazione responsabile e cooperativa infatti può rendere il lavoro professionale valido e significativo.

Un team docente unito e pienamente concorde nel seguire la stessa linea di condotta fino a condividere rischi, responsabilità ed impegni, favorirà all’interno del gruppo classe sentimenti di solidarietà, sostenuti da un clima di serenità, rispetto reciproco e disponibilità alla collaborazione.

Qualora, al contrario, il team docente rivelasse atteggiamenti discordi o di prevaricazione, evidenziando così immaturità e scarsa professionalità, non farebbe altro che disorientare il gruppo formando negli alunni personalità deboli e insicure o egoiste e prepotenti.

a) La loro vocazione
 

L’insegnante generalmente non è colui che ha scelto di farlo per vocazione: spesso è colui che si trova a farlo per ripiego o anche obbligato da motivi vari: aspettative familiari, mancanza di alternativa di lavoro, specialmente al sud, incapacità di affrontare un lavoro autonomo, illusione di poter fare un lavoro part time per dedicarsi ad una seconda attività, possibilità di conciliare esigenze lavorative con le cure domestiche, ...

I pochi vocati sono in genere coloro che si sono identificati, nella loro età evolutiva, con qualche loro maestro carismatico.

Come ti costruisco un insegnante

Non è raro sentire espressioni del genere: «Quando ho iniziato l’insegnamento, mi hanno messo un registro in mano e mi hanno buttato in una classe. Nessuno mi ha mai detto cosa dovevo fare e come insegnare.»

Dopo il primo periodo di annaspamento ciascuno organizza un proprio metodo, facendo appello ai ricordi del periodo scolastico.

Il metodo empiricamente trovato si trasforma in prassi ripetitiva, con­solidata col passare degli anni. Instaurata la routine, spesso si passa ad altri interessi in settori diversi e più gratificanti (a volte un secondo lavoro, un interesse politico, un hobby o la cura della fami­glia).

Col passare del tempo ci si convince della bontà del metodo messo in atto e si imputano gli insuccessi al disinteresse o alla scarsa capacità degli alunni; ci si sente in tal modo giustificati, ma nello stesso tempo la frustra­zione permane.

L’idea di un cambiamento di metodo, alla luce di nuovi studi e acqui­sizioni, sgomenta perché sarebbe come ricominciare daccapo e rivivere le ansie iniziali.

Ovviamente vi sono molti insegnanti che, non rassegnati a questa sorte, vivono il loro lavoro come una missione e si sforzano di reinventare costantemente il metodo di insegnamento per adeguarlo alle esigenze in continuo cambiamento; ma ciò è dovuto alla loro iniziativa e al loro entusiasmo, non ad una preparazione sistematica ricevuta in tal senso

L’approdo all’insegnamento, che una volta avveniva come regola attraverso il reclutamento concorsuale, da alcuni anni è avvenuto anche tramite sanatorie e leggi speciali che hanno immesso nella scuola uno stuolo di docenti improvvisati con una preparazione di fondo generalmente parziale. Anche nel caso di buona competenza disciplinare di base, l’aspetto didattico nei neo-docenti è assolutamente ignorato (solo i maestri elementari conoscono un po’ di pedagogia).

 

La capacità didattica del docente va strutturandosi sulla base della buona volontà personale ma soprattutto sulla pelle degli alunni.

Nei primi anni di servizio, i giovani docenti vanno strutturando una loro personalità didattica, poi, a parte coloro che sentono viva l’urgenza, la responsabilità dell’aggior-namento (che peraltro è in buona parte affidato alla sensibilità individuale), altri si adagiano nella mediocrità da ventisettisti che vivono alla giornata o, nella migliore ipotesi, all’anno scolastico. Coloro che sentono la professione come servizio alla persona in crescita per fortuna esistono ancora ma bisogna riconoscere che non rappresentano la totalità

Verrebbe da temere che ad una scuola di massa si sia affiancata una classe docente di massa, ma a chi la responsabilità di tutto questo?

Esula dai nostri compiti lanciare J’accuse! e ancor più scodellare ricette su argomenti che non sono di nostra competenza.

b) Il loro vissuto

La professione docente non sempre fa registrare successi anche in presenza di una professionalità matura, poiché molteplici sono le variabili che intervengono nel momento educativo.

Con molta frequenza infatti gli insegnanti si sentono, insicuri, insoddisfatti, impotenti, inadeguati, frustrati. Si trovano ad operare in ottemperanza ad una normativa che denota un carattere “nevrotico” (vedasi ad esempio l’altalenante cambio di norme sulla valutazione che contengono idee di fondo di volta in volta contrastanti) che ingenera confusione e disagio; si sentono spesso nell’occhio del ciclone; super censurati dall’opinione pubblica, considerati talvolta nell’immaginario collettivo “coloro che guadagnano senza produrre, coloro che godono di tre mesi di ferie, coloro che lavorano part time guadagnando uno stipendio intero”. A loro è attribuito tutto il demerito dei danni sociali e degli insuccessi scolastici, ma guai a pensare ad un loro aggiornamento sistematico e capillare! Se si pensa di contenere la spesa pubblica, i primi a venire indicati come fonte di sperpero sono i docenti!

Dinanzi a tante problematiche da dover affrontare, non c’è da meravigliarsi se poi non realizza un elevato senso di autostima, e si manifestino situazioni di disagio, di sconforto, di stress.

A volte gli insegnanti, non avendo un riconoscimento professionale, né economico, né una valorizzazione dei risultati del loro operato, compensano facendo coincidere il proprio successo con la realizzazione di un buon rapporto interpersonale o enfatizzando il loro lavoro e le discipline di cui sono esperti oppure presentandosi agli alunni come modelli da imitare.

Tutto questo però non è sufficiente per gratificarli nel lavoro; spesso accade che cerchino in altri settori lavorativi quelle soddisfazioni che vengono loro negate a scuola.

Spesso le frustrazioni dei docenti sono connesse con una oggettiva carente possibilità di formazione di base nel sapere pedagogico e psicologico e nello scarso contatto dinamico con l’origine e l’evoluzione della normativa che regola la vita scolastica., che non consente loro di sviluppare una cultura pedagogica autonoma. Di fatto il docente, male informato in settori per lui basilari, scivola in un ruolo esecutivo, privo di ogni libertà didattica intesa nel senso pieno del termine.

L’insegnante è spesso costretto ad operare in un clima di profonda insicurezza che gli deriva dal non aver chiaro lo scopo verso cui tende la sua opera. Spesso le sue scelte non sono suffragate da un elevato o adeguato nucleo di riferimento: egli va spigolando qua e là alla ricerca della ricetta preconfezionata che gli risolva il problema del momento.

A tal proposito non aiutano affatto le direttive ministeriali (spesso poco chiare e incoerenti) e i corsi di aggiornamento miranti a migliorare i contenuti e le tecniche di insegnamento, ma spesso poco aderenti alla realtà, teorici e ripetitivi e accolti, dalla maggior parte del gruppo docente, con diffidenza e scarsa motivazione.

Si nota spesso come gli insegnanti si aspettino dai corsi di aggiornamento risposte immediate e come spesso restino delusi da informazioni generiche e teoriche.

C’è da dire in verità che la professione dell’educatore è così unica, così particolare da non poter essere paragonata a nessun’altra.

Pertanto nessuno può dargli il consiglio o il metodo infallibili adeguati al suo caso.

Anche i rapporti col preside e con i colleghi, benché all’insegna della buona educazione e formalmente cordiali, risentono spesso delle normali tensioni che si creano in tutti i posti di lavoro e nei confronti dell’autorità.

Malgrado la normativa vigente a partire dagli anni settanta abbia dato sempre più ampi poteri agli organi collegiali, è da rilevare da parte degli insegnanti una autorelegazione a ruoli esecutivi e subalterni: l’autorità del dirigente scolastico generalmente viene considerata indiscutibile. Se gli insegnanti assumessero maggiore consapevolezza della dignità del proprio ruolo, maggiore forza deliberante in seno ai vari organi, i rapporti ai vari livelli istituzionali diverrebbero senza dubbio più equilibrati e democratici.

I motivi di disagio emersi nel corso degli incontri e sui quali ritorneremo nella prima parte di questo lavoro, si possono compendiare in sei filoni:

  1. Una scuola, strutturalmente arcaica, che nello sforzo di rinnovarsi, diventa sempre più caotica. Si attribuisce infatti alla scuola l’onere di rispondere a tutte le urgenze sociali senza che le si offra alcun sostegno: tutte le volte che la società avverte l’esigenza di risolvere un problema a carattere sociale delega la scuola a stilare progetti senza considerare che essa, nel portare avanti determinate problematiche, ha bisogno della collaborazione di tutti (famiglie, forze politiche, amministrative ecc...

  1. Alunni scarsamente motivati e con richieste incoerenti; disorientati da scelte educative discutibili provenienti da genitori poco interessati ai loro reali bisogni affettivi, emotivi e relazionali e troppo attenti a soddisfare ogni loro richiesta sul piano materiale, spinti anch’essi spesso, da una logica di consumo e condizionati dalla cultura dell’utilità e dell’avere.

  1. Un contesto sociale in vertiginosa evoluzione, a cui la scuola non riesce a star dietro, con conseguente scollatura tra insegnamento ed esigenze della vita reale. Il divario tra prassi didattica e vita si allarga sempre più e quando la scuola riesce a darsi delle riforme, esse appaiono già superate dai tempi. Ciò è accaduto, ad esempio, per la riforma della scuola elementare che nel breve arco di un quinquennio ha già messo in luce molteplici punti di debolezza.

  1. La crisi di ruolo dell’insegnante, sommerso dagli adempimenti formali non sempre attinenti con la sua professionalità, che si sente sempre meno maestro e sempre più burocrate dell’insegnamento. Sarebbe auspicabile che egli potesse esprimersi con più creatività nell’atto vivo dell’insegnamento inteso non come attività di cattedra ma come attività di comunicazione dove per comunicazione si intenda uno scambio bidirezionale tale da mettere “in comune” idee ed esperienze per sollecitare processi apprenditivi originali in rapporto alle capacità individuali dei vari alunni.

  1. Il sapere che si evolve e richiede competenze sempre nuove, nei contenuti e nel metodo. Accade spesso che l’insegnante si ritiri in difesa trincerandosi dietro una professionalità di “disciplina” che, lungi dal qualificarlo, lo isola dalla rete professionale. La competenza del docente, perché sia adeguata alle esigenze dei tempi, deve estrinsecarsi oltre che in preparazione disciplinare, in capacità organizzativa, relazionale (sia nei confronti dei pari che degli alunni), umana, in stabilità emotiva e in sicurezza interiore.

  1. La conseguente insoddisfazione generalizzata, che si estrinseca in comportamenti talvolta di arroganza, di violenza, di chiusura, di arroccamento nei propri principi.

B. Gli alunni

Gli alunni sono i destinatari ultimi del servizio e costituiscono quindi la finalità ultima dell’esistenza della scuola.

Per quanto questa affermazione sia ovvia, spesso viene persa di vista, sfocata dall’impellenza delle pressioni burocratiche più o meno fiscali e dai riti da compiere.

Da canto loro, non sempre gli alunni ci aiutano a capire le loro reali esigenze.

In realtà, dietro richieste apparentemente incoerenti, si nascondono spesso esigenze profonde che non possono essere disattese.

Compito dell’educatore è saper decodificare i loro messaggi e leggere oltre i loro comportamenti a volte indisponenti.

a) Richieste esplicite

Egoismo ed Egocentrismo

Il termine egoismo, coniato dai moralisti del XVIII secolo è, per usare le parole di I. Kant, un modo abituale di essere e di agire che «restringe tutti i fini a se stesso e non vede altro al di fuori di ciò che giova a lui».

Col termine egocentrismo indichiamo la tendenza a porre se stessi al centro di ogni evento o di ogni preoccupazione per una non ancora raggiunta differenziazione tra l’ego e l’alter (J. Piaget). Questa tendenza è normale nell’infanzia e tende a scomparire col processo di maturazione. Riaffiora con più insistenza in certe fasi dell’adolescenza, attivata da fattori emotivi.

Come meglio vedremo in seguito, il periodo giovanile è caratterizzato dall’emergere caotico di esigenze spesso discordanti e facilmente etichettabili dagli adulti come capricci o come espressione di egoismo.

Per quanto questa caratteristica non sia assente nell’età giovanile, più che di egoismo, dovremmo parlare di egocentrismo.

b) Richieste implicite

In realtà gli alunni ci chiedono di essere capiti nella loro difficile fase di transizione e di essere preparati a costruirsi il loro futuro, non di avere imposto il nostro attuale modo di pensare.

Dietro l’aria a volte spavalda, sentono il bisogno di idealizzare una figura adulta che dia loro comprensione ed aiuto; quella comprensione che con molta frequenza non riescono trovare nei loro genitori, ai quali difficilmente confiderebbero tanti loro problemi.

Vogliono essere preparati ad affrontare la vita in tutti i suoi aspetti, per molti dei quali nutrono ansie e paure.

Anche nel campo strettamente scolastico, vogliono appagata la loro sete di conoscere, ma nei contenuti e nei modi per i quali nutrono in quel momento interesse.

c) I linguaggi delle richieste.

Il giovane avverte spesso un disagio che non riesce a tradurre adeguatamente a livello verbale.

Non è raro che manifesti il suo vissuto con comportamenti che visti dall’esterno sembrerebbero strani.

Si rivela estremamente arduo capire cosa vuole realmente esprimere con certe forme di comportamento, quali:

  • Disinteresse

  • Indisciplina.

  • Gesti antisociali.

  • Timidezza.

  • Aggressività.

Per quanto il compito sia arduo, l’educatore dovrebbe costantemente considerare il comportamento dei giovani come una forma di linguaggio da decodificare.

Nella realtà la preoccupazione principale è spesso quella di reprimere o correggere comportamenti considerati contrari al buon andamento della scuola.

Volendo ricorrere ad un esempio, è come se di fronte ad un ammalato di polmonite il medico si preoccupasse di somministrare un antipiretico per abbassare la temperatura, un analgesico per alleviare i dolori, un analettico per migliorare la circolazione e il respiro e non curasse di fare un’attenta diagnosi e prescrivere l’antibiotico più opportuno.