La comunicazione

 

La comunicazione è spesso vista come un’asettica trasmissione di informazioni burocratiche. In realtà dovrebbe farci entrare in sintonia con gli altri mediante tutto il nostro essere. Il corpo, nella globalità delle sue espressioni, ne costituisce il tramite.

Spesso, per necessità, siamo costretti a settorializzare, comunicando qualcosa attraverso un filtro che trattenga le emozioni; altre volte il filtro stesso ci costringe ad oscurare una parte di quanto abbiamo in mente e ci limitiamo alle mezze verità.

In ogni caso, un sorriso o un segno di complicità che accompagni la nostra espressione verbale o addolcisca il contenuto - non sempre gradevole - di quanto vorremmo comunicare, certo non guasterebbe; a condizione, però, che traduca la nostra buona disposizione verso gli altri.

Significherebbe voler dire: debbo comunicarti qualcosa che forse non ti è gradito, ma sappi che ciò non compromette la mia buona disposizione verso di te, ti accetto ugualmente come persona e come amico; continuo a volerti bene e guardarti con simpatia.

In altri tempi, il boia che doveva eseguire una sentenza capitale, la sera prima si recava nella cella del condannato per esprimere il suo rincrescimento e la sua solidarietà, spiegando che quanto avrebbe fatto era solo l’ esecuzione di un comando, non un gesto di malevolenza o di ostilità nei suoi riguardi.

Certo, se siamo interiormente aridi o malevoli verso i nostri simili, è meglio usare un filtro; simulare benevolenza si tradurrebbe in una smorfia.

Può anche capitare che nella nostra comunicazione usiamo l’altro solo perché in quel momento ci serve, ignorando di aver a che fare con un altro essere umano, coi suoi sentimenti e le sue emozioni. Potremmo compiacerci della nostra scaltrezza, ma la cosa ci rende sereni e ci dà la gioia di vivere?

Possiamo burocratizzare i rapporti, codificare la comunicazione e trasmettere soltanto i codici, come nella storiella precedente.

Ma questo ci farebbe sorridere?

Nello stesso vecchio manicomio, ad un degente era stato frettolosamente diagnosticato un disturbo delle capacità logiche.

Passato un certo tempo il medico del reparto vuol fare una rapida verifica e gli chiede:

  • Se ti tagliano un orecchio, che succede?

  • Non ci sento da quell’orecchio.

  • E se ti tagliano anche l’altro?

  • Non ci sento e non ci vedo.

Reputando illogica la risposta, il medico lo rimanda in reparto.

La prova si ripete più volte con lo stesso risultato.

Alla quarta vola è presente un giovane ricercatore col quale il medico commenta la refrattarietà delle cure in quel paziente.

Il ricercatore, interessato allo studio dei processi mentali nei casi di disturbi ideativi, vuol capire le modalità del ragionamento che lo portano a quella conclusione e chiede:

  • Come mai, se ti tagliano le orecchie, non ci vedi?

  • Vede dottore, ho un vecchio cappello ereditato da mio padre. Lui aveva la testa più grossa della mia e il cappello a me sta largo; poggia sulle orecchie, ma se me le tagliano entrambe, scivola giù, mi copre gli occhi e non ci vedo.

 

La comunicazione che resta in superficie
 

Spesso nelle discussioni abbiamo fretta: cogliamo qualche frase e la confrontiamo coi nostri schemi di riferimento; se non collima la reputiamo illogica e ci scalmaniamo per confutarla. L’interlocutore, vedendosi attaccato, passa al contrattacco, senza curarsi di verificare cosa l’altro aveva capito.

In una tranquilla caserma di carabinieri di un piccolo paese, tra un rapporto al comando e la denunzia di un furto, il brigadiere Scannapieco confida al maresciallo Lanzafame:

  • Sa maresciallo, la sera quando vado a letto ho sempre i piedi freddi e non c’è modo di farmeli riscaldare.

  • Potresti usare una boule, sai, quelle borse di gomma dove si mette l’acqua calda. La sera la riempi di acqua bollente e la metti dentro il letto, dalla parte dei piedi.

  • Si? E dove si compra?

  • In farmacia o dove vendono articoli sanitari.

  • E costa molto?

  • No, costa poco. Anzi, potresti fare un’altra cosa. Ti procure un gatto; non ti costa niente, ti tiene compagnia, se ci sono topi te li fa scomparire e la sera ti riscalda i piedi.

Passa qualche giorno e il brigadiere arriva in caserma pieno di cerotti.

Il maresciallo preoccupato gli chiede cosa era successo.

  • Sa maresciallo, ho seguito il suo consiglio. Mi sono procurato un gatto. Non mi è costato niente, mi tiene compagnia, c’era qualche topo e lo ha fatto scomparire, ma al momento di mettergli l’acqua bollente è diventato un diavolo!

 

La comunicazione inceppata
 

Succede, a volte, che, presi dai nostri pensieri e dalle nostre preoccupazioni noi non ascoltiamo chi ci sta di fronte; l’interlocutore potrebbe aver cambiato discorso o ci vuol dire altro, ma noi restiamo a rimuginare una frase o anche ci difendiamo immaginando che egli abbia completamente torto o che ci voglia attaccare.

Assumiamo un atteggiamento sospettoso e prestiamo solo attenzione a quanto può confermare la nostra convinzione.

Perdiamo il contesto globale, cogliamo qualche espressione isolata dall’insieme, ci impuntiamo su di essa, ci sentiamo offesi e contrattacchiamo.

Non ci comportiamo diversamente dal nostro bravo brigadiere che resta col pensiero fisso sull’acqua bollente da versare e non segue la prosecuzione del discorso.

Eludiamo i concetti di fondo, anche se veri e condivisibili; creiamo una conflittualità di relazione perdendo di vista i contenuti.

Dialoghi del genere non sono certamente gratificanti, né, tanto meno, costruttivi.

La storiella seguente è realmente accaduta.

Sebbene ottantentenne, mia sorella era ancora perfettamente lucida; solo la memoria a breve termine le giocava a volte qualche scherzo.

Doveva rimborsare un lontano parente, Pippitto, per delle spese che aveva sostenuto per lei.

Le era completamente sfuggito di mente, ma non così al creditore.

Il tempo passava e Pippitto, non vedendosi chiamato, pensò bene di prendere l’iniziativa ed essere lui a chiamarla, ma senza far trasparire il vero motivo.

Mia sorella, da parte sua, sentendo la voce, si ricordò immediatamente del debito, ma non voleva far pensare che l’avesse dimenticato.

Ne venne fuori il dialogo così sintetizzato:

  • Ciao cugina, come stai?

  • Bene, grazie, e tu come stai?

  • Non molto bene, tanto che in questi giorni non sono andato a lavorare.

  • Sì, l’ho saputo. Ti avevo telefonato al lavoro, visto che a casa non hai telefono e mi hanno detto che non c’eri andato perché stavi male.

  • Me lo hanno riferito, e per questo ho telefonato. Ho pensato: vediamo cosa voleva la cugina.

 

La comunicazione furbesca
 

Dialogare significa sintonizzarsi con l’altro inserendosi nel solco del suo discorso, continuare per un tratto, poi lasciare che il primo riprenda per tornare ad inserirsi alternativamente, fino ad una conclusione accettata di comune accordo o alla definizione delle rispettive posizioni, nel reciproco rispetto.

È quanto avviene nello scorcio di dialogo furbesco citato, sebbene si tratti di un ammirevole gioco di astuzia reciproca.

A quel tempo gli orologi da polso non erano ancora diffusi, anche perché la moda di regalarli al figlioccio in occasione della cresima non ara ancora arrivata.

Il tempo era scandito dai rintocchi dell’orologio del campanile; esistevano gli orologi da tasca, ma non erano alla portata … di “tutte le tasche”.

Il parroco ne possederne uno con la cassa d’argento cesellata, ereditato dal padre defunto. Lo custodiva gelosamente ed era contento di poter comunicare ai parrocchiani l’ora esatta, quando ne facevano richiesta.

Un parrocchiano devoto l’aveva tante volte osservato … e desiderato;lo avrebbe voluto, ma memore del settimo comandamento, cercava di allontanare ogni tentazione di furto.

Un giorno, mentre il parroco celebrava la messa, entrò nell’ufficio del parroco per lasciare delle carte sul tavolo.

In un cassetto semiaperto sbirciò l’orologio, oggetto delle sue brame; anche se “lo spirito è forte, la carne è a volte debole” e si sa pure che “l’occasione fa l’uomo ladro”.

Si guardò attorno, prese l’orologio, riportò indietro le carte per non lasciare traccia del suo passaggio e si defilò, ma con l’intenzione di cancellare il peccato commesso con la confessione.

Si ripresentò non appena finita la messa, prima che il parroco andasse nel suo ufficio chiedendo di confessarsi.

Dopo aver snocciolato alcuni peccatucci, proseguì:

  • Padre, ho rubato un orologio, lei lo vuole?

  • No, figliolo.

  • E allora che ne devo fare?

  • Restituirlo al proprietario.

  • Ma il proprietario non lo vuole.

  • In tal caso, te lo puoi tenere.

 

Le mezze verità
 

Con un po’ di furbizia, possiamo far dire al nostro interlocutore ciò che noi abbiamo in mente.

Basta limitarsi a dire le mezze verità, come il nostro devoto parrocchiane che aveva detto il vero per mettersi in pace la coscienza.

Un signore di una certa età entra in un bar, si avvicina con aria compassata al bancone e chiede con un certo sussiego:

  • Cameriere, due whiskies.

  • Scusi signore, perché non chiede un whiskey doppio?

  • Capisco, lei è nuovo in questo bar e non può sapere. Per tanti anni son venuto qui con un fraterno amico e chiedevamo due whiskies, uno per lui e uno per me. Ora lui è morto, ma io non posso tradire la sua memoria; continuo a venire e chiedo ancora due whiskies, uno per lui e uno per me.

Il cameriere si immedesima anche lui nel rito e religiosamente versa i due whiskies in due bicchieri.

La cerimonia si ripete quotidianamente finché un giorno il signore entrando chiede:

  • Cameriere, un whiskey.

  • Scusi signore, e quello dell’amico?

  • È questo il whiskey dell’amico.

  • E il suo?

  • Io mi son tolto il vizio di bere.