2.1 INCONTRO

 

Il primo incontro, preceduto da appuntamento telefonico, avviene di solito col Direttore dell'Istituto, che è l'operatore più anziano, tranne che l'utente non faccia richiesta di parlare con una persona diversa.

Sebbene il primo colloquio abbia, per necessità di cose, un carattere esplorativo, si tiene costantemente presente l'obiettivo di stabilire il rapporto di empatia che dà inizio a quella "particolare esperienza di rapporto umano" che aiuterà l'utente a superare il suo stato di disagio.

Il colloquio si svolge senza uno schema prestabilito in modo di dare all'utente la possibilità di esprimere pienamente il proprio stato, così come è soggettivamente vissuto.

21.1 Stabilire un rapporto di comunicazione empatica

Obiettivo prioritario da raggiungere nell'ambito del primo incontro è quello di stabilire un rapporto di empatia, di comunicazione e di fiducia con l'utente.

Ricordiamo la funzione della comunicazione è di trasmettere il proprio sistema di informazione per poter strutturare e mantenere un rapporto in relazione agli obiettivi che si intendono raggiungere; si rende quindi indispensabile curare fin dall'inizio una corretta impostazione di questo aspetto basilare.

Le modalità di trasmettere le proprie informazioni è legata a codici verbali e non verbali; la comunicazione verbale è sotto il controllo dell'attenzione; mentre quella non verbale sfugge almeno parzialmente, ad essa, col vantaggio di eludere più facilmente eventuali resistenze.

Possiamo sintetizzare questi concetti in quattro aspetti che servono come punti di riferimento:

211.1 Accettazione dell'utente

L'accettazione incondizionata dell'utente e la dimostrazione di una tale accettazione possono avvenire attraverso una serie di messaggi verbali e non verbali:

 

- non fare uso di camice;

- chiamarlo personalmente (e non introdotto dalla segretaria!) dalla sala d'attesa e per nome;

- scusarsi per un eventuale ritardo sull'orario;

- riconoscergli un suo spazio;

- rispettare un suo eventuale turbamento;

- non dimostrare fretta nel conoscere il motivo della sua venuta;

- non dimostrarsi impazienti se si dilunga in discorsi prolissi e marginali;

- insistere cortesemente di voler parlare direttamente con l'utente e non con gli accompagnatori, specie se questi vogliono farlo prima, senza di lui;

 

- non prender appunti quando riferisce fatti che per lui potrebbero essere imbarazzanti;

- non guardare con insistenza l'orologio;

- non congedarlo se ha appena acceso una sigaretta, se non ha finito un discorso intrapreso, o se in un qualche modo mostra di avere ancora qualcosa da dire;

- alla fine del colloquio, non dimostrare fretta a congedarlo salutandolo o dirigendosi alla porta prima che egli abbia preso eventuali suoi oggetti o indossato il cappotto.

 

Sono questi degli esempi di messaggi di accettazione dell'utente.

211.2 Dimostrazione di capire il problema dell'utente

Ogni buon operatore sociale sa che non esiste un problema in astratto, ma una persona che vive, in modo strettamente soggettivo e irripetibile, una determinata situazione personale, spesso gravitante attorno ad un problema più o meno definito.

E' fondamentale, per un buon rapporto terapeutico, che l'utente abbia la netta percezione che l'operatore capisca il suo problema; non semplicemente che si tratti, ad esempio, di una fobia, ma si sia reso conto dello stato di disagio che egli vive per la limitazione che la fobia pone al suo comportamento.

Una comprensione profonda comporta che l'operatore si sintonizzi con l'utente sul piano emotivo calandosi, per quanto è possibile, nella sua realtà soggettiva per vivere assieme a lui i suoi stati emotivi, pur non lasciandosi coinvolgere per non perdere l'obiettività nella valutazione della situazione;nello stesso tempo l'operatore dovrà dimostrare autenticamente il proprio vissuto in modo da poter stabilire quel profondo rapporto di comunicazione che, per poter essere tale dovrà essere dialogico.

Per raggiungere questo obiettivo non basta rassicurare l'utente con generiche espressioni, né limitarsi a ripetere le ultime battute da lui pronunciate. E' necessario lasciarlo parlare liberamente; considerare tutte le sue espressioni, verbali e non verbali, un tentativo di mostrare il proprio vissuto attraverso il bisogno o il rifiuto di comunicare; di tanto in tanto puntualizzare ciò che lui stesso ha detto, traducendo in forma più esplicita e più chiaramente ciò che egli, anche implicitamente ha espresso, mostrando che si fa questo per assicurarsi di aver capito bene.

Può capitare che l'operatore non riesca a vivere gli stati emotivi dell'utente connessi ai fatti da lui raccontati, trattandosi di reazioni abnormi ai fatti stessi; in casi del genere l'operatore dovrà continuare ad essere autentico esprimendo che capisce che egli soffra tanto, anche se non si rende conto del perchè, non riuscendo a vedere la proporzione fra i fatti ed una tale reazione emotiva.

L'utente deve costantemente percepire che l'interlocutore si occupa di lui, non pensa ad altro ed ha effettivamente capito il suo problema.

211.3. Alleanza terapeutica.

 

Capito il problema in tutte le sue sfaccettature, l'operatore stabilisce un'alleanza terapeutica col cliente dimostrando che è disposto ad aiutarlo, come è stato disposto a capirlo. Aiutarlo significa mettersi dal suo punto di vista e dalla sua parte; non dalla parte dei genitori o dei familiari od in genere dalla parte degli altri.

E' lui che si rivolge all'Istituto per chiedere un aiuto, ha quindi il diritto a stabilire lui stesso l'alleanza e non altri per lui, o peggio, altri per i loro interessi.

Alleanza terapeutica significa solo mostrare tutta la propria disponibilità all'aiuto, non scendere a semplicistiche promesse di "guarigione", anche se ciò è ragionevolmente prevedibile; il motivo di questa precauzione è duplice: prima di tutto evitare che l'utente si adagi in una passiva attesa di "guarigione taumaturgica" da parte dell'operatore "nelle cui mani" si è affidato (l'espressione è ricorrente da parte degli utenti!); in secondo luogo perchè spesso, specie quando si è tratto un vantaggio secondario dal disagio, l'idea della "guarigione" sgomenta e fa aumentare le resistenze. Non è raro infatti il caso dell'utente che venga solo per dimostrare, a se stesso e agli altri, l'impossibilità di una guarigione; in casi simili una ingenua promessa in tal senso determina o una reazione di sfida o l'abbandono del trattamento.

211.4. Allargamento dell'alleanza all'équipe

L'operatore con cui l'utente ha stabilito il contatto rappresenta in quel momento l'intera équipe dell'Istituto: è tutta l'équipe a disposizione dell'utente.

Questo concetto viene espresso attraverso l'uso del "noi", quando è il caso, e attraverso tutti gli accenni che possono servire allo scopo.

L'utilità di una simile prassi è di preparare l'utente ad un eventuale intervento di altri operatori, qualora se ne ravvisasse l'utilità, e di dare maggiore sicurezza attraverso la constatazione che è una intera équipe a seguirlo. Ovviamente ciò va fatto con oculatezza perchè non sempre incontra il suo gradimento.

Nei casi in cui si rivelano utili delle indagini psicodiagnostiche questo tipo di alleanza trova la sua prima applicazione, poiché queste indagini vengono condotte da altri operatori, specializzati in questo settore. L'invito a sottoporvisi viene motivato con le considerazioni più adatte al caso; spesso facciamo osservare che di lui non conosciamo nulla oltre quello che ci ha esposto nel colloquio appena concluso e che potrebbero essere utili, per la comprensione del caso, altri dati ricavabili attraverso una batteria di tests; in ogni caso si rassicura che si tratta di indagini puramente tecniche e che non dovrà ripetere ad altri la sua storia.

 

212 Raccogliere i dati utili per la formulazione della prima ipotesi.

Il secondo obiettivo da raggiungere nell'ambito del primo incontro riguarda i contenuti: avere più informazioni possibili ma nello stesso tempo nella maniera più genuina e senza aggravare ulteriormente il disagio dell'utente.

L'ordine da seguire non è prestabilito ed il colloquio si svolge con tono di conversazione blandamente guidata. Possiamo articolare nei seguenti punti questi concetti e gli elementi da esplorare:

212.1 Non aggravare ulteriormente il disagio dell'utente.

L'utente che si rivolge all'operatore con una richiesta di aiuto presenta solitamente una notevole fragilità e vulnerabilità; si richiede da parte dell'operatore molta sensibilità e molto tatto per non peggiorare la situazione.

Anche in campo psicologico è valido l'assioma che deve regolare ogni intervento terapeutico: primum non nocere.

Particolare attenzione dovrà essere usata circa la comunicazione da fare all'utente su tendenze inconsce rilevate dall'operatore o interpretazioni di motivi inconsci del suo comportamento.

Lo scopo dei primi incontri è quello di raccogliere elementi per una ponderata decisione sul tipo di intervento da programmare e di predisporre l'utente alla attuazione pratica dell'intervento concordato. L'aiutare a prendere coscienza di contenuti inconsci è qualcosa da fare a terapia inoltrata e quando l'utente è in grado di sostenerlo.

Da non dimenticare che un contenuto è, e si mantiene, inconscio perchè disturberebbe il soggetto se affiorasse al livello di coscienza; non è raro che una incauta comunicazione od anche un semplice accenno a contenuti inconsci susciti reazioni di difesa, di fuga dal trattamento o di angoscia.

Anche a livello di semplice indagine occorre essere cauti nell'indagare sui problemi che toccano tali livelli.

Un intervento maldestro, anche se a scopo esplorativo, può quindi, non solo compromettere il rapporto terapeutico, ma anche aggravare notevolmente lo stato di disagio che si vorrebbe alleviare.

212.2 Non inficiare l'esposizione con domande suggestive.

Nell'ambito del primo colloquio noi preferiamo limitarci a prendere atto di quello che l'utente espone, spontaneamente o sollecitato con generiche domande stimolo ed a chiedere precisazioni evitando accuratamente ogni domanda suggestiva.

Non sono rari i casi di utenti che "costruiscono" la loro sintomatologia attraverso zelanti domande dell'operatore che ha formulato frettolosamente una ipotesi ed altrettanto frettolosamente la vuole validare.

Noi preferiamo dedicare tutto il primo colloquio e, se il caso lo richiede, anche un secondo, alla raccolta di dati nella maniera più genuina che sia possibile; non ci interessa di "stupire" l'utente "indovinando" altri sintomi che non ha riferito e che lui stesso confermerà, anche convincendosene, per gratificarci o per destare in noi maggiore interesse o per altri motivi più o meno evidenti!

Preferiamo riservare le domande che portano a completare il quadro e a verificare le ipotesi alla seconda fase dell'intervento.

Regola generale da noi adottata nel fare le domande è di non lasciar trasparire la risposta che eventualmente ci attenderemmo e di non enfatizzare la domanda stessa facendo capire che attribuiamo un nesso importante tra quello che stiamo chiedendo ed il disturbo che l'utente presenta

Può capitare che sia l'utente stesso a chiedere che nesso abbiano le nostre domande coi suoi disturbi: rispondiamo genericamente che tutte le informazioni possono essere utili per la comprensione della situazione.

In questo contesto è opportuno accennare ad un altro pericolo nel quale con una certa frequenza si può incorrere.

Spesso capita che l'utente inizi il suo discorso parlando di un problema che potrebbe avere una risposta immediata; l'operatore, specie se è l'utente, anche implicitamente, a richiederlo, è facilmente tentato, cedendo alla propria ansia o alla propria inesperienza, di dare subito una risposta o un consiglio. Questo tipo di impostazione del rapporto porta ad incanalare il discorso in un argomento particolare senza che vi siano gli elementi necessari per affrontarlo in un contesto più ampio; in realtà, solo alla luce di tutto l'insieme è possibile cogliere il problema particolare nel suo preciso significato ed analizzarlo adeguatamente.

Di più, le modalità con le quali si tratta quel primo argomento possono pregiudicare le ulteriori indagini miranti a conoscere l'insieme della situazione; la raccolta dei dati che se­guirà rischia di non essere più genuina ma influenzata dalle prime risposte dell'operatore.

D'altro canto, è buona norma quella di astenersi da qualsiasi intervento particolare prima di avere formulato una strategia terapeutica generale.

212.3 Rilevazione dei dati e focalizzazione dei fattori di disagio.

Pur tenendo presenti i fattori esposti al paragrafo precedente, bisogna indagare accuratamente per formarsi un quadro del disagio vissuto dall'utente e dei fattori ad esso connessi.

Partendo dal presupposto che il disagio è una limitazione dello stato di benessere, e non una entità a sé stante, fin dal primo incontro tentiamo di dare più spazio al benessere da ampliare, in modo che il disagio regredisca.

A questo proposito si pone a volte un dilemma che l'operatore sociale dovrebbe tenere costantemente presente:

A. Essendo l'obiettivo ampliare lo stato di benessere è opportuno tener d'occhio per il minimo indispensabile il disagio e solo nella misura in cui ciò è necessario per definirlo, circoscriverlo e farlo regredire.

Focalizzare troppo l'attenzione su di esso potrebbe significare ingigantirlo ed a volte svolgere un'azione parallela a quella che mette in atto la famiglia facendo da "cassa di risonanza" agli stati emotivi del congiunto.

B. D'altro canto non dare sufficiente spazio all'analisi del sintomo potrebbe portare a sottovalutarlo ed a non capire la dinamica profonda.

Inoltre una rassicurazione superficiale potrebbe sminuire nell'utente la motivazione al trattamento.

Un'altro dilemma che ci si vuole porre riguarda se dare più spazio agli stati emotivi, alle impressioni ed in generale ai vissuti o non piuttosto fermare l'attenzione sui fatti concreti. Come si sa, l'atteggiamento è diverso nelle varie scuole e le imposizioni implicano dei grossi problemi di ordine teorico che non intendiamo affrontare in questo momento.

Noi siamo convinti che entrambi gli aspetti meritano un'accurata attenzione, pur tenendo a privilegiare il secondo.

Motivo della scelta è quello di porre le premesse, in una prospettiva terapeutica, per un corretto rapporto con la realtà, arginando, nella misura in cui ciò è possibile ed utile, la proiezione dei propri fantasmi.

Sul piano operativo, lasciamo che sia l'utente ad iniziare l'esposizione del suo problema, ponendo l'accento su ciò che maggiormente lo interessa; anche questa sua preferenza è un dato utile da tenere in considerazione. Al momento opportuno cerchiamo di orientare l'esposizione sui fatti concreti, se non sono stati sufficientemente messi in luce.

La caratteristica dell'utente che parla del suo sintomo è la facile generalizzazione: tranne che per alcuni ossessivi, egli ha difficoltà a circoscriverlo, come se la sua vita fosse dominata dal sintomo stesso.

Superata la fase dell'esposizione spontanea e di un eventuale sfogo emotivo, con opportune e precise domande si chiede, secondo i casi, qual'è il motivo specifico che lo ha spinto ad andare dallo psicologo; cosa esattamente prova nel corso del disturbo; quando il disturbo si manifesta, invitando a precisare la frequenza e l'ora; in coincidenza di quali azioni; in quali luoghi; in compagnia di quali persone; per quale durata; in coincidenza di quali altre azioni scompare; qual'è l'intensità nelle varie circostanze; chi dei familiari e degli amici ne è a conoscenza e cosa ne pensano; eventuali altre cure eseguite, modalità dettagliate di esse, specie se si tratta di interventi di ordine psicologico, e risultati ottenuti, e così via.

E' essenziale, in questa fase, analizzare le richieste esplicite ed implicite dell'utente, fra le quali non sempre c'è coincidenza; intendiamo con richieste implicite quelle che l'utente non formula solo per disinformazione o per mancanza di presa di coscienza del proprio stato.

Spesso si scoprirà, ed è anche l'utente a scoprirlo, che il disagio è più circoscritto di quanto non si potesse immaginare; viceversa,approfondendo il discorso, potrà prendere atto che il vero problema è diverso da quello inizialmente esposto.

In ogni caso si potranno avere molte preziose informazioni per un intervento mirato.

212.4 Indagine sulla storia del disagio.

Particolare attenzione va rivolta alle circostanze in cui il disagio è insorto; agli avvenimenti concomitanti o successi immediatamente prima; ad altre situazioni in cui lo stesso o un simile disagio si è manifestato e quale è stato il decorso e l'eventuale superamento in situazioni analoghe; se altri membri della famiglia hanno presentato disturbi simili.

Attraverso questa indagine potranno emergere importanti elementi per la comprensione delle cause e del significato del sintomo, ma soprattutto per poter formulare una prima ipotesi ed impostare correttamente un piano di indagini più approfondite.

212.5 Indagini sulla vita dell'utente.

Esaurite le prime indagini sullo stato di disagio, si invita l'utente a parlare della propria vita.

Le reazioni possono essere diverse: c'è chi liquida l'argomento nel giro di pochi minuti, c'è chi si dilungherebbe per parecchie sedute se non fosse arginato; in presenza di persone eccessivamente laconiche si potrà insistere ponendo delle domande riferite a periodi più significativi.

Si potrà indagare particolarmente su quanto riguarda:

- i rapporti coi genitori e con gli altri familiari dall'infanzia ad ora;

- l'educazione scolastica ed il successivo curriculum;

- l'educazione religiosa ed i successivi interessi in tal senso;

- gli interessi sociali e politici;

- l'evoluzione della vita sessuale ed affettiva;

- l'andamento della vita lavorativa.

Lo scopo di questa prassi è di raccogliere informazioni a più vasto raggio in modo da vagliare su cosa si dovrà più accuratamente indagare in un secondo tempo.

212.6 Indagini sulle abitudini di vita.

Nel condurre il colloquio si cercano di esplorare con un certo tatto, anche se non sistematicamente, le abitudini di vita dell'utente:

- abitudini alimentari

- sonno

- vita sessuale

- vita lavorativa

- tempo libero

- amicizie

- interessi culturali

- interessi sociali

- interessi sportivi

Ogni altro elemento che potrà rivelarsi utile all'indagine.

212.7 Indagine sui vantaggi secondari del disagio.

Parlando delle abitudini di vita siamo soliti dare un notevole peso all'esplorazione di eventuali vantaggi secondari tratti dal disagio o che comunque possono contribuire ad alimentarlo.

A questo scopo si può utilmente approfondire l'indagine su cosa ha cambiato il disagio nella vita dell'utente e della famiglia e su che cosa cambierebbe se venisse a cessare.

 

212.8 Indagine sui rapporti interpersonali

Altro aspetto che si tiene presente nel corso del primo incontro è l'indagine sui rapporti interpersonali: coi singoli membri della famiglia attuale e della famiglia d'origine, nell'ambiente del lavoro e nei rapporti sociali in genere.

Parlando dei familiari, ed in particolare dei genitori e delle persone particolarmente significative, siamo soliti invitare l'utente a parlare dei loro caratteri, dei loro atteggiamenti, delle loro idee, secondo che il caso lo richieda.

212.9 Raccolta di informazioni attraverso i familiari

Quando l'utente viene accompagnato dai familiari, se il caso lo richiede, un altro operatore parla con loro per raccogliere altre informazioni che possono rivelarsi utili, specie se sono i familiari stessi a richiederlo.

E' regola costante per noi che sia un operatore diverso ad avere questi colloqui (mai lo stesso che parla con l'utente!), anche se si tratta di bambini, e di attenersi alle precauzioni accennate ai paragrafi precedenti.

Il contenuto delle informazioni da richiedere varia secondo l'età dell'utente ed il grado di parentela degli accompagnatori.

Se il caso lo richiede si potrà procedere ad una accurata anamnesi familiare o fisio-psicologica dell'utente e ad una descrizione delle abitudini di vita della famiglia e dei vari membri.

In ogni caso si dovrà indagare su quanto loro conoscono del disturbo, nelle loro risonanze emotive, sulle spiegazioni che loro si danno, sul grado di consapevolezza del disturbo che attribuiscono al membro che lo vive, su ciò che il disturbo ha cambiato anche nella loro vita, sulle loro reazioni al disturbo, sulle loro aspettative dal trattamento, sulla loro disponibilità alla collaborazione, e così via.

Dal discorso potrebbe emergere che sono proprio i familiari la causa del disturbo od anche i portatori del vero problema e che l'utente, per il quale è stato richiesto l'intervento, è solo il paziente designato di una patologia che investe tutto il nucleo familiare.

In casi del genere bisognerà prefiggersi come obiettivo di indurre la motivazione ad una terapia familiare o, quanto meno, a regolari colloqui degli altri membri della famiglia.

Chiaramente, trattandosi di un colloquio libero o blandamente guidato, non potranno essere rilevate tutte queste informazioni e non tutti i dati potranno essere sufficientemente approfonditi; La fase successiva tenderà ad integrare tutte le notizie mancanti.