3. Obiettivo dell'educazione.

 

L'educazione, come oggi viene concepita, più che adeguare l'individuo ad una norma consacrata dalla tradizione, ha il fine di aiutarlo a raggiungere lo status di adulto ben integrato.

Le modalità educative passate consistevano nella trasmissione rigida di regole di vita e nel far sì che l'individuo si adeguasse ai modelli precedentemente sviluppati dalla società. Queste modalità trovavano una certa giustificazione nella stretta connessione con problemi di sopravvivenza, nella limitatezza negli scambi con contesti sociali differenti e nella conseguente lentezza dei mutamenti del contesto socio-ambientale.

Un tempo le notizie di quanto accadeva a Roma o a Parigi arrivavano a casa, filtrate dal padre che le aveva conosciute dal racconto di un viaggiatore! Oggi, sotto l'effetto dei mezzi di comunicazione di massa, in tempo reale, giunge in casa qualsiasi novità o moda da ogni parte del mondo.

Alcune analogie od esempi significativi possono chiarire meglio il concetto:

* Analogia con la scala del mondo animale. La trasmissione degli schemi di comportamento tramite l'istinto è molto più rigida nelle specie inferiori, nelle quali, se le condizioni esterne si staccano da quelle che la natura prevede, l'istinto può portare a comportamenti autodistruttivi; se si tratta di condizioni ambientali avverse permanenti, la specie può anche estinguersi perché i singoli individui non sono in grado di elaborare comportamenti che permettano di adattarsi alle nuove situazioni. Salendo nella scala animale riscontriamo una maggiore plasticità, fino a toccare il massimo nei primati.

* Esempi tratti dalla psicopatologia. Il comportamento assume una rigidità esasperata in molti stati patologici, come nella deficienza mentale, nell'autismo, nelle nevrosi ossessive, nell'ansia; è più plastico ed adattabile nelle persone normali.

* Esempi tratti dall'etnologia. Nelle culture rimaste a livelli primitivi, la trasmissione degli schemi di comportamento è estremamente rigida. Troviamo un esempio negli aborigeni del deserto australiano, rimasti fermi a sistemi di vita dell'età della pietra; le condizioni ambientali pongono seri problemi di sopravvivenza ed è proprio la rigidità nella trasmissione delle regole di comportamento che permette di continuare la vita, da millenni, in posti dove un individuo civilizzato non riuscirebbe a farlo per più di qualche settimana.

* Esempi tratti dalla storia. Nei periodi storici caratterizzati da maggiori difficoltà per condizioni di vita o per pericoli esterni, la trasmissione delle norme comportamentali è stata più rigida. Ricordiamo in Grecia la differenza tra Sparta e Atene ed a Roma tra il periodo repubblicano e quello imperiale.

* Esempi tratti da situazioni di emergenza. Le leggi sono più rigide quando sussistono situazioni di pericolo; un chiaro esempio è il codice militare in tempo di guerra.

La rapida diffusione delle informazioni e il vorticoso cambiamento del contesto sociale fanno sì che la tendenza attuale si orienti verso una maggiore flessibilità nella trasmissione delle regole comportamentali. Si reputa più opportuno fornire le informazioni e gli strumenti perché l'individuo costruisca le regole di cui ha bisogno nel processo di adeguamento al contesto in cui verrà a trovarsi e di cui egli stesso sarà artefice.

D'altronde, non si avrebbe altra scelta; il contesto sociale in rapido mutamento renderebbe anacronistiche molte regole di vita reputate oggi importanti, quando gli attuali bambini saranno diventati uomini.

Le conseguenze possono assumere direzioni opposte, dipendenti dal contesto in cui la trasmissione stessa avviene:

* Devianza, che può sfociare nella antisocialità. Il rischio è più grande se il bambino non viene abituato a gestire in prima persona la libertà esterna che l'ambiente gli concederà.

* Originalità, che può concretizzarsi nella creatività e contribuire ad un più rapido progresso e miglioramento della società, sempre a condizione che il bambino sia abituato ad usare la libertà in modo costruttivo.

Questa tendenza rende oggi il ruolo dell'educatore molto più difficile che nel passato.

Consideriamo alcuni punti:

* Si hanno meno certezze di prima e chi è convinto di averle denota una personalità rigida.

* a causa dei rapidi cambiamenti, le istanze sociali non sono più univoche come un tempo; i vari ambienti recepiscono più o meno facilmente i cambiamenti e quindi coesistono sacche in cui vigono ancora i modi di pensare passati accanto a modelli che intendono capovolgere tutto e movimenti di riflusso che tendono a negare quanto già si reputava acquisito.

* Le norme rigidamente introiettate creano un conflitto con il modo di pensare diverso con cui successivamente si entra in contatto; ne segue un costante disagio che può sfociare nella nevrosi o in disturbi più gravi.

* Si rende, pertanto, necessario per ognuno mettere costantemente in discussione se stesso e il proprio modo di pensare, faticosamente acquisito.

* * *

Volendo analizzare gli obiettivi dell'educazione, ci soffermeremo su tre aspetti che potrebbero costituire dei punti di orientamento per una corretta impostazione educativa.

A. Trasmissione di valori.

B. Modifica dei disvalori.

C. Educazione all'autonomia.

 

A. Trasmissione dei valori.
 

Questa espressione ricorre spesso in campo educativo, tanto da dare l'impressione che tutti siamo concordi su quelli che debbono considerarsi valori da trasmettere. In realtà la situazione è molto più complessa.

Educare non significa indottrinare i bambini secondo le attuali idee degli adulti, ma metterli in grado di vivere adeguatamente in un contesto che loro stessi dovranno costruirsi, secondo una logica che noi ora possiamo solo ipotizzare.

L'attuale nostro modo di pensare è il frutto di una evoluzione durata millenni, ma è destinato ad essere, almeno in parte, superato da nuove idee.

E' difficile dire oggi quali saranno le idee che persisteranno come valori immutabili e quali saranno considerate frutto di un certo contesto.

Alcune riflessioni che prendono in considerazione termini come tabù, pregiudizi, valori, possono aiutarci ad inquadrare meglio il problema.

 

a) Tabù.
 

Con questo termine, di origine polinesiana, connesso con la sociologia del pericolo e con una certa sacralità, intendiamo una legge non scritta che impone o vieta determinati comportamenti, pena mali gravissimi, oscuri e fatalmente incombenti.

Sebbene nel linguaggio corrente assuma una connotazione totalmente negativa, dobbiamo considerare il tabù un modo arazionale con cui una società si difende da qualcosa che percepisce vagamente, ma fortemente pericoloso e non arginabile con mezzi razionali.

Come tutti i sistemi di difesa arazionali, i tabù generalizzati indiscriminatamente, rischiano di coinvolgere e inibire comportamenti sereni e spontanei che, liberi di esprimersi, contribuirebbero al futuro benessere dell'individuo. In altri termini, i tabù, nel tentativo di difendere la società, rischiano di intralciarne la normale e positiva evoluzione.

Nell'interesse del bambino, l'atteggiamento educativo più equilibrato è saper leggere quali sono i messaggi utili al benessere sociale che il tabù vuole trasmettere e riformularli in chiave più coerente col modo di vivere attuale.

 

b) Pregiudizi.
 

Secondo l'interpretazione di Allport, il pregiudizio è una forma di semplificazione cognitiva adottata a livello sociale per districarci più facilmente nel mondo che ci circonda.

Un esempio tratto dalla tecnologia ci aiuta a chiarire il concetto. Dovendo costruire un’apparecchiatura complessa, sarebbe estremamente laborioso costruire i singoli pezzi partendo dalle materie prime; si utilizzano i componenti prefabbricati che vengono assemblati, in modo da semplificare al massimo il lavoro. Allo stesso modo, di fronte a qualcosa che non conosciamo, applichiamo più o meno stabilmente, una idea preconcetta che ci eravamo precedentemente formata: se ci troviamo di fronte ad un inglese, un marocchino, un garzone di macelleria o un alto prelato, dei quali non conosciamo nient'altro, ci attendiamo comportamenti diversi, siamo portati a valutare in modo diverso comportamenti identici e noi stessi ci predisponiamo a reagire in modo diverso ai loro interventi.

Il pregiudizio, attraverso una selezione ed etichettatura delle informazioni che riceviamo sulle persone e sugli eventi sociali, ci evita di dover sottoporre ad analisi costante il nostro modo di pensare su di essi o, più in generale, su determinati aspetti della vita.

Più marcato è il coinvolgimento emotivo nei riguardi di determinati valori, più forte è la tendenza a filtrare le informazioni sulle persone e sugli eventi con conseguente discriminazione o giudizi categorici, che diventano particolarmente rigidi in condizioni di conflitto.

Se il pregiudizio ha una qualche funzione nel facilitare il rapporto con la realtà, il dare troppo spazio ad esso rischia di predisporre il bambino ad una rigidità mentale che intralcerà la sua convivenza sociale e l'adattamento alle situazioni nuove in cui immancabilmente verrà a trovarsi nel corso della vita.

 

c) Valori.
 

Il termine valore, mutuato dal campo economico, indica quei costrutti ideali che hanno il significato di orientamento e di corrispondenza a norme assunte come valide. Essi rappresentano la sedimentazione delle conquiste più stabili che l'umanità è andata realizzando nel corso della sua storia e che vengono proposte ad ogni nuovo individuo che entra a far parte della realtà sociale.

è difficile distinguere quali valori debbano essere trasmessi come perenni e immutabili e quali sono il frutto di un determinato contesto sociale, validi in quel periodo, ma suscettibili di cambiamento al mutare dei presupposti che ne avevano determinato la formazione.

Ogni contesto sociale, per il fatto stesso di credere in determinati valori, è portato a considerarli assoluti ed a trasmetterli dogmaticamente come tali.

La società, però, costantemente si modifica, creando da sempre quel conflitto generazionale, testimoniato dal perenne rimpianto dei bei tempi passati da parte degli anziani: «laudator temporis acti se puero», direbbe Orazio.

Questa evoluzione, da sempre esistita, oggi è enormemente più rapida. Le novità che si riversano a getto continuo difficilmente possono essere serenamente vagliate, specie se il contesto ambientale non permette una certa elasticità mentale.

Non c'è da stupirsi se una parte della nuova generazione, non abituata ad un atteggiamento critico, di fronte all'anacronismo di determinati contenuti trasmessi come valori assoluti, sia portata ad una reazione allergica al termine stesso di valori e a slittare verso forme più o meno marcate di relativismo.

Indipendentemente dalla volontà dei genitori, il bambino diventerà adulto e si troverà nella necessità di dover interagire con una realtà diversa da quella nostra attuale, utilizzando modalità che noi non possiamo ora prevedere.

Operare nell’interesse dei bambini e dei giovani non significa doverli programmare per una vita organizzata a misura della nostra vita attuale, ma dar loro la serenità e gli strumenti perché siano loro ad organizzare la loro vita futura.

 

B. Modifica dei disvalori.
 

Se è difficile poter prevedere quale evoluzione subiranno i valori che sono considerati tali attualmente, è relativamente più semplice prendere atto di alcune modalità di comportamento che attualmente consideriamo negative e non è affatto presumibile un cambiamento di tale giudizio.

L'educazione non può assumersi la responsabilità di trasmettere e perpetuare forme di cultura già percepite disfunzionali nel contesto sociale in cui si vive.

Spesso però si tratta di forme subdole che, pur eludendo la presa di coscienza, permeano il modo di pensare corrente; in altri termini, pur deplorando le manifestazioni antisociali che ne scaturiscono, coltiviamo, senza rendercene conto, il modo di pensare e di agire che predispone ed esse.

A solo titolo esemplificativo, non certo esaustivo, citiamo alcuni esempi:

a) Edonismo egocentrico.

Una caratteristica della nostra attuale società sembra essere, specie fra i giovani, la ricerca del piacere immediato, a discapito dell'impegno e della progettualità nella vita. Fra i giovani di oggi, molti danno l'impressione di essere spregiudicati, viziati, irresponsabili, con la pretesa di essere solo soggetti di diritti, di dover avere tutto e subito, senza porsi il problema di quello che loro danno in cambio.

Esula dal nostro attuale intento l'analisi delle possibili cause; molte di esse certamente costituiscono il rovescio della medaglia del livello di benessere e di sicurezza sociale raggiunti. Possiamo ipotizzare, semplificando, le tappe come segue:

1. Una certa sicurezza dei posti di lavoro, la pensione, le mutue, le assicurazioni, pur coi loro limiti, hanno dato all'individuo e alla famiglia una discreta garanzia per il futuro.

2. La necessità di risparmiare per la vecchiaia, le malattie, gli incidenti non ha la stessa urgenza di un tempo, quando queste forme di assistenza non esistevano; si può quindi spendere la quasi totalità di quello che si guadagna.

3. La possibilità di ottenere rateizzazioni permette di avere subito quello che si desidera e di spendere quello che non si è ancora guadagnato.

4. Ne segue un consumismo esasperato e l'impressione di poter avere tutto e subito, senza quindi dovere aspettare che prima si guadagni.

5. Questo clima viene respirato dai bambini che spesso partecipano al consumismo degli adulti.

6. Analogamente all'esigenza negli adulti di conquistare e mantenere un certo status symbol, i bambini si sentono frustrati se non hanno lo zainetto firmato o i videogiochi che ha il compagnetto; gli adulti li accontentano per evitare loro frustrazioni e con la motivazione che i figli debbono avere quello che loro da bambini non hanno avuto.

7. I bambini recepiscono un messaggio semplificato in funzione del loro comodo: si può avere tutto e subito, basta frignare se i genitori oppongono resistenze.

8. Divenuti più grandi le loro attese non si limitano allo zainetto firmato e di fronte alla constatazione che la realtà non è così gratificante come si era fatto loro credere, evadono in forme di asocialità: i furti, le rapine e la droga ne costituiscono esempi.

In questo contesto - che noi adulti abbiamo creato - tentiamo di arginare le conseguenze parlando ai giovani di senso del dovere e di responsabilità, linguaggio che non trova in loro una risonanza adeguata perché dissonante con le impressioni che provengono dal contesto.

In realtà, come avviene in altri settori, noi continuiamo ad usare, in un ambiente radicalmente cambiato, un linguaggio strutturato in un contesto passato, solo nel quale poteva essere recepito.

Non vorrei gettare un sasso nella piccionaia toccando un argomento tanto delicato, quale il piacere e la sua ricerca.

Ci è stata tramandata dalle generazioni passate una profonda conflittualità tra l'atavica diffidenza per il piacere, consacrata dal detto popolare: prima il dovere, poi il piacere, e l'innato bisogno della ricerca del piacere stesso, caratteristica fondamentale dell'essere umano

Oggi, come già detto, questa conflittualità è esasperata per l'incoerenza dei messaggi che disorienta i giovani: ci si sente in dovere di far proprio - sia pure a livello puramente concettuale - l'antico adagio e nello stesso tempo, viziando i bambini col soddisfare i loro capricci ed esaltando costantemente il piacere come la meta più ambita, si comunica l'opposto.

Si aggiunga poi che la solerte soddisfazione di tanti capricci (collezioni di Barbie, zainetti firmati, giocattoli costosissimi ....), spesso potenziata da una malcelata competitività tra le famiglie, impedisce la formazione di desideri strutturati - che vadano aldilà dell’impulso del momento - e rende i bambini instabili, irrequieti e incontentabili. Anche le loro molteplici attività (mio figlio fa palestra, pattinaggio, piscina...) costruiscono bambini superimpegnati, con impossibilità di elaborare adeguatamente gli stimoli che giungono dall’ambiente.

Le conseguenze della conflittualità e dei messaggi incoerenti non sono state certo felici:

      • Da un canto la tradizione, appigliandosi alla morale ufficiale e facendo leva sul dovere, ha ampliato questo concetto al punto di tentare di fargli invadere tutta la vita, a spese del piacere. Si partiva dal presupposto che la tendenza alla ricerca del piacere è tanto forte che, per quanto si cerchi di arginarla, si manifesterà sempre più del dovuto. Chi di noi non si è sentito ripetere: La vita è sacrificio, La vita è lotta, «La vita è sofferenza La vita è una valle di lacrime? Logica conseguenza è stata una visione cupa della vita e il dilagare delle nevrosi, specie nei soggetti più fragili.

      • D'altro canto, il bisogno di ricerca del piacere, enfatizzato dai mass media e frustrato dalle norme morali, sfocia spesso in una bramosia infantile, caotica e non finalizzata; ne deriva con frequenza il lasciarsi andare ad un edonismo egocentrico che, oltre a rendere l'individuo infelice, lo potrebbe far slittare verso forme di devianza; l'abuso di sostanze come la droga e l'alcool costituiscono un esempio tristemente attuale.

Se, abbandonando una certa ipocrisia, si assumesse un atteggiamento più lineare su questo argomento, forse il processo educativo farebbe più presa e la serenità dei futuri uomini se ne avvantaggerebbe.

Che oggi l'umanità non sia più disposta a soffrire per problemi di principio, è un dato di fatto; né si mostra molto sensibile al valore della sofferenza come fine a se stessa o per il suo significato espiatorio.

A mio avviso assumere un atteggiamento più lineare significa imperniare l'azione educativa facendo leva proprio sul bisogno di ricerca del piacere, da tutti sentito, al fine di potenziarlo canalizzandolo in una direzione costruttiva; in altri termini allargare lo spazio e il tempo motivazionale per rendere il piacere più ampio, duraturo ed estensibile agli altri.

Potrebbe essere utile chiarire i tre aspetti:

1. L'ampiezza del piacere.

Perché il piacere sia pienamente vissuto è necessario che si assuma un atteggiamento critico di fronte all'impulso immediato; compito dell'educazione è di abituare a ponderare in considerazione i vari aspetti di quello che si vuol fare prima di passare all'azione, per evitare che, al venir meno di un eventuale motivo immediato e marginale, non ci si trovi scontenti della scelta fatta.

Volendo ricorrere a un esempio banale, se si vuole acquistare una macchina, non è sensato farlo impulsivamente, badando solo al colore, anche se è questo il primo aspetto che attira.

2. La durata del piacere

Nella ricerca del piacere, riuscire a proiettarsi nel futuro, in modo che una soddisfazione momentanea non pregiudichi un piacere più grande e duraturo. Non viene quindi proposta la rinunzia al piacere, ma di differire, quando è necessario, il soddisfacimento immediato per un piacere futuro più grande. In altri termini far prendere atto che a volte è più saggio rinunziare all'uovo oggi per avere domani una gallina che farà molte uova.

Sempre in tema di esempi banali, se un dipendente al 27 del mese riscuote lo stipendio e lo spende immediatamente in cose futili, si ritroverà a doversi privare del necessario fino alla riscossione del prossimo stipendio. Avrà soddisfatto il piacere immediato, ma con notevoli svantaggi per il resto del tempo.

3. L'estensione del piacere agli altri.

Essendo l'uomo un essere socievole, la soddisfazione è più grande se si riesce a coinvolgere gli altri nel proprio piacere.

Non si tratta del dovere astratto di essere buoni e generosi con gli altri, ma di soddisfare uno dei bisogni fondamentali dell'uomo, base di ogni progresso sociale: superare la propria individualità egocentrica per sentirsi membri della grande famiglia umana e godere della gioia degli altri.

Nel luglio del 1956, mi trovavo a Parigi per passare un periodo di vacanza, finiti gli esami della sessione estiva all'università di Lovanio; passeggiando lungo la Senna, nei pressi di Notre Dame, mi soffermai a curiosare davanti ad una bancarella e fui attratto da un cartoncino con una scritta:

Dividi il tuo pane, diminuisce.

Dividi il tuo tetto, resta lo stesso.

Dividi la tua gioia, aumenta.

Trovai quelle parole perfettamente rispondenti al mio modo di sentire e dopo 40 anni le trovo sempre più vere.

Il principio vale anche nell'ambito familiare. Sono convinto che, se tanti genitori, più che sacrificarsi o stare in ansia per i figli, imparassero a godere del rapporto con loro, li farebbero crescere più sereni e trasmetterebbero un insegnamento di vita ben più efficace delle monotone e noiose paternali sul senso del dovere.

Il discorso fatto è di ordine puramente psicologico e pragmatico, non filosofico o religioso.

Lo proponiamo perché, a livello pragmatico, una motivazione agisce più efficacemente se si innesta su un bisogno in atto avvertito e se nel presentarla si usa un linguaggio consono al modo di pensare e sentire corrente in un determinato contesto.

Mi viene in mente un episodio accadutomi la scorsa estate.

Tornando a nuoto dall'isola di Capo Passero, mi imbattei in una forte corrente che mi spingeva verso il largo. Considerando anche la mia non giovanissima età e la poca perizia nel nuoto, dovetti faticare molto per non farmi trascinare e giunsi sfinito alla riva.

L'albergatore, un anziano pescatore a cui avevo raccontato il fatto, mi spiegò che in casi del genere è pericoloso opporsi alla corrente; bisogna parzialmente assecondarla, anche se si devia dalla direzione voluta, finché non si esce dalla corrente stessa; si riprenderà dopo più agevolmente la direzione prefissata. In termini di spazio, il percorso sarà più lungo, ma si risparmia di molto in termini di energia impiegata e si corrono meno rischi.

Fu quella per me una lezione di vita. Spesso non serve andare contro corrente aggrappandosi rigidamente a problemi di principio; è più utile assecondare le esigenze della persona, canalizzandole in direzione più costruttiva.

Orientando gli interventi sulla canalizzazione della ricerca del piacere, il compito è notevolmente facilitato per vari motivi:

1. Ci si allea, negli interventi, con un bisogno dell'individuo; non si interviene con una costrizione.

2. Quello che chiamiamo attualmente dovere si connota come un piacere differito, perché sia più pieno e duraturo.

3. Il dovere si presenta, non come imposizione arbitraria da parte di una volontà esterna, ma come una esigenza della realtà per garantirci una organizzazione più piacevole della vita.

4. Il dovere, visto come una esigenza della realtà, può essere più facilmente sfrondato da imposizioni inutili e fine a se stesse.

5. Si trasmette una concezione gioiosa della vita.

In questa prospettiva, il disordine non sarebbe più costituito dalla ricerca del piacere, ma dall'incapacità di realizzarne la soddisfazione in forma adulta e matura.

b) Cultura del posto, non del lavoro.

Vi è un concetto di cui, come per una tacita intesa, non si suole parlare: il significato del lavoro nella vita umana.

Sarà forse un misto di pudore, malcelato fastidio o il senso di colpa e la vergogna per essere vittime della più antica maledizione biblica: ... maledetto sia il suolo per causa tua! Con affanno ne trarrai il nutrimento per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi farà spuntare per te, mentre tu dovrai mangiare l'erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane .. (Genesi, 3, 17-19).

I grandi filosofi della Grecia classica sembravano aver capito bene questo concetto ed avevano superato il problema dividendo nettamente gli uomini in due classi: quelli che avevano il dovere di lavorare e quelli che vivevano del lavoro degli altri.

Platone, nei Dialoghi, fa dire a Socrate che è impensabile il fatto che un individuo appartenete alla buona società, dia in sposa la propria figlia al figlio di un ingegnere (ός, anche se questi sia il costruttore di macchine da guerra che abbiano salvato la città. (Platone, Gorgia)

Né è più tenero verso i lavoratori nella Repubblica dove associa la canaglia e gli artigiani ς ύς   ές ed afferma che un uomo dabbene deve disprezzare il lavoro (Platone, Repubblica 3).

Aristotele estende il disprezzo, oltre che al lavoro manuale, al commercio, alle attività che oggi chiameremmo bancarie e a tutte quelle occupazioni che servono per guadagnare denaro. Per lui, il privilegio dell'uomo libero non è la libertà ma il diritto all'ozio, che ha come corollario il lavoro forzato degli altri: Vi sono lavori che un uomo libero non può fare senza degradarsi; per questo la natura ha prodotto una specie di esseri, gli schiavi, il cui corpo è destinato a soffrire per noi. (Aristotele, Politica: id., Etica Nicomachea).

Senofonte spiega il motivo di questo disprezzo: Le arti denominate manuali sono vili e giustamente vengono molto spregiate presso le città, dato che fiaccano i corpi di coloro che le esercitano e curano, costringendoli a star seduti e ritirati ed alcune persino a sostare giornate intere presso il fuoco. E tu sai che quando i corpi sono fiacchi, anche gli animi diventano assai più deboli. (Senofonte, L'Economico, IV)

Il modo di pensare dei romani nei primi anni dell'impero non era molto dissimile, tanto che Cicerone mostrava disprezzo non solo per il lavoro manuale, ma per qualsiasi lavoro retribuito, perché simbolo di schiavitù:

Sono pure bassi e disonorevoli i mestieri di tutti quelli che lavorano per mercede, di cui si compra, non l'opera, ma la mano d'opera: in essi infatti la mercede rappresenta per se stessa una sanzione di servitù (ipsa merces auctoramentum servitutis). ... Similmente hanno un basso mestiere tutti gli artigiani, perché in un'officina non vi può essere alcunché di decoroso. Molto meno sono poi da considerarsi i mestieri che provvedono ai comuni piaceri: pescivendoli, macellai, salsicciai, pescatori... aggiungi a questi, se vuoi, i profumieri, i ballerini, … (Cicerone, De officiis, l. I, c. 42)

Significativo il fatto che il termine scuola (ή in greco significa ozio, tempo libero e per estensione il luogo dove si trascorreva il tempo libero ad ascoltare l'insegnamento che i maestri gratuitamente impartivano. Per Platone, infatti, un maestro non poteva accettare denaro, poiché la sapienza è un valore in sé che non può essere subordinato alla necessità economica.

Oggi ufficialmente si inorridisce di fronte ad una concezione del genere; ma proviamo, per un momento, ad analizzare l'atteggiamento di tanti giovani che passano il tempo ad oziare fra i banchi di scuola, in attesa del futuro posto, mentre i genitori, nati per questo, assolvono i compiti degli antichi schiavi! E questi moderni schiavi spesso si dimostrano felici della loro condizione, nella speranza che il figlio un giorno la riscatterà: da quell'ozio potrà ottenere il pezzo di carta che lo metterà in condizioni di vincere un concorso e conquistare l'agognato posto; otterrà in tal modo, almeno spera, di poter oziare dietro una scrivania e non dovrà sporcarsi le mani come i genitori, realizzando il loro sogno: fare il salto di qualità passando dai lavori manuali alla vita più onorata di colui che sta al di là del tavolo.

Certo, non si può generalizzare, e poi, queste cose, non solo non si dicono, ma non si pensano nemmeno e vanno contestate a chi osa avanzarle. Ma, non sarebbe il caso, pur contestandole, di farvi un qualche pensierino?

Nella terza parte, trattando dell'argomento della scuola, torneremo a parlare delle concezioni dei filosofi antichi.

Per il momento riprendiamo brevemente il discorso della concezione biblica del lavoro.

In realtà, la maledizione di cui parlavamo non è costituita dalla necessità di lavorare, ma vuol dare una giustificazione della fatica che avrebbe accompagnato il lavoro.

Il messaggio che i primi capitoli della Bibbia ci vogliono trasmettere è di tutt'altro genere.

Con un linguaggio antropomorfico, mutuato dalle concezioni sumeriche e babilonesi, l'opera creativa e la sua potenzialità di evolversi vengono presentate come un lavoro divino organizzato in sei giorni e seguito dal riposo nel settimo giorno; lo scopo è di dare all'uomo un modello di alternanza tra lavoro e riposo e di sacralizzare il giorno del riposo stesso, concetto che sarà ripreso nei dieci comandamenti.

Dio si rivela come il sommo artefice dell'Universo. A compimento della Sua opera, il sesto giorno crea l'uomo a Sua immagine e somiglianza e gli affida il compito di continuare l'opera intrapresa.

L'homo faber, fatto a somiglianza di Dio per l'intelligenza, immagine dell'infinita sapienza divina, che lo caratterizza, si stacca dagli animali che lo avevano preceduto: intuisce le leggi dell'Universo che continua a plasmare per adeguarlo alla propria vita e rendere meno penoso il lavoro; costruisce, generazione dopo generazione, la storia; partecipa alla propria redenzione alleviando la fatica (primordiale maledizione) che accompagna il lavoro e realizzando il Regno dei Cieli, ideale di una organizzazione sociale perfetta, basata sulla legge dell'amore, che il Cristo avrebbe annunziato.

Nel lavoro si possono quindi scorgere due significati fondamentali:

1. Un elementare dovere di giustizia: se utilizziamo il lavoro degli altri per soddisfare le nostre necessità e realizzare il nostro benessere, è giusto che anche noi diamo agli altri il frutto del nostro lavoro.

2. Un modo di realizzare pienamente noi stessi come essere umani: soddisfare il nostro profondo bisogno creativo, nel campo che ci è più congeniale, producendo qualcosa che sia utile alla società.

Conosciamo tutti la profonda risposta data da Freud, negli ultimi anni della sua vita, a chi gli chiedeva quali fossero le caratteristiche dell'individuo normale. Eludendo le attese di chi si aspettava un discorso complicato, enunciò le caratteristiche della piena maturità: la persona normale è quella capace di amare e di lavorare.

Amare significa riuscire a sintonizzarsi affettivamente con gli altri esseri umani e con tutta la realtà che ci circonda.

Lavorare, conseguenza dell'amore, vuol dire essere capaci di dare il meglio delle proprie energie per la realizzazione di sé e per il miglioramento della condizione umana.

Se riflettiamo bene, siamo sicuri che sia questa la concezione del lavoro che ci è stata tramandata e che - di fatto - trasmettiamo ai bambini che vogliamo educare?

c) Cultura dell'avere.

Il culto dell'avere, in contrapposizione all'essere, sembra costituire una caratteristica della società attuale ed è alla base di tensioni, malesseri e di molti comportamenti criminali o ad essi assimilabili.

La persona viene presa in considerazione e stimata non per quello che è, ma per il suo patrimonio e per la sua capacità di arricchirsi; non c'è quindi da stupirsi se nella mentalità corrente domini il mito della ricchezza e del facile guadagno.

Al tradizionale culto cristiano del Dio trino, sembra essere subentrato il culto del dio quattrino.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti:

* La filosofia del capitalismo, retta solo dalla logica del guadagno.

* Il cinismo dei fabbricanti di strumenti di morte.

* L'avidità dei mercanti di armi e di droga.

* La vasta gamma dei delitti contro il patrimonio.

d) Cultura mafiosa.

Una delle conseguenze dei disvalori ai quali abbiamo accennato è la cultura mafiosa, di cui tanto oggi si parla, sopravvissuta a innumerevoli generazioni di benpensanti.

Parlando di mafiosi siamo abituati a pensare ai grandi criminali assurti agli onori della cronaca; perdiamo di vista la schiera enormemente più numerosa di persone oneste che costituiscono l'entroterra senza il quale la mafia stessa non attecchirebbe.

Accenniamo ad alcuni tratti che, organizzati in un sapiente equilibrio, costituiscono o alimentano la mentalità mafiosa:

* Rigidità e dogmatismo.

* Sacralizzazione del potere personale e del gruppo.

* Attaccamento rigido alle regole del gruppo.

* Concezione selettiva e punitiva della giustizia.

* Confusione tra solidarietà e omertà.

* Possessività

 

C. Formazione all'autonomia.
 

Non dobbiamo perdere di vista che la funzione delle istituzioni educative, la famiglia e in una certa misura la scuola, è quella di guidare i soggetti loro affidati fino al raggiungimento del traguardo dell'autonomia. A questo punto il ruolo specifico delle istituzioni educative cessa: il figlio dovrà essere considerato un adulto a tutti gli effetti, senza che la famiglia si senta più in dovere di interferire nelle sue scelte e nella sua vita; la scuola non suole vantare pretese del genere, ma non è raro il caso che si trovi ad indulgere ad atteggiamenti paternalistici che ricalcano quelli familiari.

Un eccessivo legame con la famiglia di origine, che permanga nella vita adulta, rischia di costituire un intralcio sia nella formazione di una nuova famiglia, sia nei rapporti sociali più estesi.

Da questo emerge chiaro un concetto: se, per un eccesso di protezione, non si agevola un adeguato sviluppo dell'autonomia, intesa come capacità di organizzare la propria vita, nella misura in cui l'età lo permette, il ragazzo si troverà impreparato e nell'impatto con un mondo diverso da quello in cui era cresciuto, si troverà disorientato.